Capitolo 10: Verso gli states

Una volta imbarcata sull’aereo mi ritrovai a sedere in mezzo ad islamici col turbante e a meridionali maleodoranti; pertanto, dopo la conta dei passeggeri da parte delle hostess prima del decollo, non appena il portellone della scaletta d’ingresso fu chiuso, chiesi ed ottenni di poter cambiare posto. Era stato casuale il fatto che fossi stata stipata fra quella brutta gente o si trattava della “mia mafia”? Lì per lì non ci volevo pensare, inebriata com’ero dall’avventuroso viaggio che mi attendeva e allo stesso tempo tesa, presagendo il sicuro incombere di altri ostacoli alla riconquista della mia libertà. Tuttavia, all’idea di poter presto abbracciare una nuova esistenza senza più impicci, mi sentivo fiduciosa nella speranza che alla fine mi avrebbero lasciata andare ed ero pronta a dimenticare con buona pace dei sensi tutto ciò che mi era successo fino a quel momento. Decisi quindi di abbandonarmi a questo dolce sopore giusto per la durata del volo, così da riprendere fiato.

Cominciai ad osservare le persone intorno a me: chi per lavoro, vacanza oppure per riabbracciare parenti e amici, erano tutti lì con me sullo stesso aereo. Durante l’attesa dell’imbarco, avevo stretto amicizia con una coppia di anziani signori americani, di origine italiana, venuti in Italia a trovare i nipotini e che ritornavano a New York, dove vivevano. Quando rivelai loro che il mio giro turistico non aveva una meta precisa e che stavo letteralmente andando allo sbaraglio, si guardarono con aria sorpresa, un po’ allarmata e restarono ammutoliti: ma io sentivo di dover almeno provare a conoscere qualcuno che mi potesse ospitare o aiutare in qualche modo e fu unicamente quella la ragione della mia confidenza.

Dopo la brutta figuraccia iniziale con la coppia di anziani signori, però, mi ero ben guardata dal sedere loro vicino. Il mio posto, fortunatamente, si trovava alcune file dietro.

Decisi di spostarmi ancora più indietro e mi sedetti accanto ad una giovane coppia italiana dall’accento toscano che si regalava questo viaggio, anche per festeggiare la laurea in ingegneria conseguita dal ragazzo. Mi resi conto di puzzare non poco a causa del cattivo odore che dal pianerottolo di casa era penetrato fin dentro la mia abitazione, al punto da impregnare i vestiti che indossavo. Il ragazzo della giovane coppia era evidentemente infastidito dall’odore e non faceva nulla per nasconderlo. Fui comunque allietata da questo episodio, in quanto ciò significava almeno che il disagio e l’intolleranza verso quella insopportabile situazione che vivevo a casa aveva un’origine reale e non era frutto di una mia psicosi, come invece la mia famiglia e alcuni miei co-inquilini volevano farmi credere. Ovviamente nel contempo mi vergognavo del fastidio che stavo arrecando ai miei compagni di viaggio.

Le prime quattro ore di volo filarono lisce, nonostante convivessi con il dubbio se qualcuno degli uomini del mio stalker che mi seguivano dappertutto, si fosse imbarcato sul mio stesso aereo. Mi trovavo adesso nella penultima fila prima del break corner e stavo tentando comunque di lasciarmi cullare dal rombare pacato del velivolo che stava ormai volando ad alta quota, quando vidi venire verso di me, apparentemente diretto al break corner, un tizio alto e stempiato, con il codino e gli occhiali. Costui mi guardava con aria apparentemente distaccata ma insistente.
Cercai pertanto di decifrare questo suo atteggiamento, finché un lampo nella mente mi fece trasalire bruscamente.

Si trattava dell’uomo che avevo visto più volte nelle vicinanze del seminterrato nel centro di Bologna in cui avevo abitato per pochi giorni, dopo che avevo lasciato l’appartamento di San Lazzaro; un ultimo, disperato tentativo di riprendere in mano le redini della situazione infausta di continue violazioni al mio domicilio e disagi vari, prima di fuggire nuovamente. Quell’uomo che avevo spesso notato e che adesso si trovava di fronte a me sull’aereo, era lo stesso che certamente si introduceva nel mio appartamento in mia assenza e urinava sulle pareti. Difatti, allorquando uscivo dal nuovo immobile per andare a fare la spesa, me lo ritrovavo fuori in strada che mi fissava serio come avevano fatto i due tizi dell’autogrill, dove aspettava che liberassi il campo per adempiere la sua missione, affinché lo restituissi e ritornassi nell’altro vecchio. Quello che accadde per l’appunto.

Nel lasso di tempo in cui feci questo collegamento, l’inquietante personaggio bevve qualcosa al break corner e risalì il corridoio fino all’inframezzo, dove sostò alcuni istanti. Io cominciai a sbiancare, come se mi fosse apparso il diavolo. L’uomo, volgendomi le spalle con le braccia incrociate dietro la schiena, iniziò ad issarsi ripetutamente sulle punte dei piedi per poi ricadere sui talloni, in uno “step” da sfinimento che mi faceva piombare nella situazione persecutoria già preannunciatami sin dal tragitto in taxi, e che implicava il messaggio: “Dove pensi di andare?”.

A questo punto, mi alzai e gli andai incontro, apostrofandolo sgarbatamente: “Ci conosciamo?”. Con un finto imbarazzo e disappunto, l’uomo mi rispose: “Non credo!”, e si allontanò con un ghigno tra lo snob e il divertito: quasi non rientrassi per referenza ad un proprio target di conoscenze precostituito nel seguire una rapida occhiata della mia persona.

Vicino a noi notai un giovane uomo che era stato testimone di quel nostro incontro e, dalla sua espressione accigliata, immaginai avesse pensato che io stessi “intortando” l’uomo di proposito. Imbarazzata per l’impasse, ma ancor più seriamente preoccupata e angosciata per le avversità cui stavo andando incontro di ora in ora, mi ritrassi con la massima dignità possibile per poi iniziare a camminare avanti e indietro, dalla toilette al corner break, in preda all’agitazione. Un oblò, mi apriva il panorama delle nuvole tra le quali eravamo sospesi e mi richiamava alla mente le immagini dei documentari, tanto magnificenti quanto vuote, poiché mai viste dal vero; questa sensazione rispecchiava in qualche modo come mi sentivo in quel momento: una specie di smarrimento e sorda inquietudine insieme. E anche lo stesso stupore che avvertivo guardando fuori dal vetro era dato più dalla situazione assurda che stavo vivendo in quell’agghiacciante silenzio. Riuscii comunque a calmarmi; dovevo restare lucida perché non era ancora finita, visto che li avevo alle calcagna! Una volta sopraggiunti al terminale di Newark – uno dei quattro scali di New York -, cercai di rimanere composta e di mantenere un’apparenza indecifrabile, poiché presumevo che il torbido personaggio che mi stava alle costole sull’aereo, avrebbe informato il mio stalker non solo dei miei spostamenti ma anche dello stato emotivo in cui io versavo, nutrendosi, quest’ultimo, delle mie nevrosi.

Le cose andarono però diversamente: percorsi l’area del terminale che confluiva in una zona più aperta, dove i passeggeri si dividono in due file per le procedure doganali, a seconda del tipo di visto da richiedere, quello turistico di due settimane oppure quello più lungo, della durata di nove mesi, che me ne stavo ancora assorta a guardarmi intorno, come se fossi in una sorta di purgatorio.

Non ho visto molto dell’America a questo proposito, al di fuori dei grattacieli già illuminati nello spegnersi della luce del sole durante l’atterraggio, i gipponi all’aeroporto, oltre ad osservare una certa “ariosità” in generale dello stesso terminale; quando rientrai in me ed ebbi la consapevolezza di quest’ultimo adempimento doganale, prima di poter finalmente respirare l’aria americana che lo vidi nuovamente il personaggio dell’aereo, e stavolta entrai immediatamente in agitazione perché realizzai che si era posizionato nella fila per il visto lungo e che dunque non aveva certo intenzione di lasciarmi andare tanto facilmente. Per un inconscio meccanismo auto – difensivo, ipotizzai che forse lo stalker voleva perseguitarmi fino all’ultimo, anche lì negli States, per il solo gusto di farmi soffrire ma non si sarebbe spinto fino all’impedirmi di restare in territorio americano. Improvvisamente mi scossi da quel torpore: non me li sarei mai scrollati di dosso, questa era la verità. Quindi mi spostai istintivamente nella fila contrapposta del visto turistico, dove vidi un addetto alla dogana di circa 35 anni, obeso, con i capelli a spazzola e gli occhi azzurri, che poneva domande in slang. Vista la situazione di panico in cui mi trovavo, realizzai che non sarei mai riuscita a rispondere adeguatamente. Infatti, al mio turno, l’agente deve avermi domandato quale fosse il mio albergo ma mi sentivo mancare, tanta era l’ansia che avevo dentro, e biascicai qualcosa che non ricordo e che fu accolta con un fragoroso scoppio di risa dagli spagnoli ventenni che erano dietro di me nella fila.

Allora chiesi l’assistenza di un interprete e in mio aiuto giunse la hostess di terra del Alitalia: una ragazza italiana, di origini meridionali di qualche anno più giovane di me dall’aspetto gradevole, spigliata e di bella presenza. Alta 1.65 m anche se un po’ cicciottella, portava dei lunghi capelli castano scuro leggermente mossi che le incorniciavano un viso dolce, dagli occhi dello stesso colore. Mi domandò subito a quale struttura ricettiva fossi diretta e io le dissi che non avevo prenotato nessun albergo dall’Italia, considerandolo irrilevante. Lei mi spiegò invece che dopo l’11 settembre era diventato obbligatorio prenotare e comunicare alla dogana il proprio recapito negli Stati Uniti, e che lei poteva offrirmi un recapito da dichiarare.

A quel punto mi sentii in trappola: la mia sopravvivenza dipendeva dal non lasciare alcuna traccia dei miei movimenti, perché chi mi dava la caccia lo faceva corrompendo le istituzioni. Questa era la ragione per cui avevo pensato di trovare una sistemazione solo una volta arrivata a destinazione. Crollai e vuotai il sacco: spiegando la vera ragione di quel mio viaggio. Ovvero che stavo fuggendo da qualcuno.

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PRIMI DOCUMENTI DELLE VIOLAZIONI AL DOMICILIO SUBITE, DELL’ASILO IN AMERICA E ALTRO – VOLANTINO DEL PRIMO CONGRESSO SULLO STALKER A MODENA  AL QUALE HO PRESO PARTE PRIMA DI DECIDERE DI SCAPPARE – , ECC.