Capitolo 12: Ritorno dall’America

Un lunedì nella mia cella d’isolamento, l’officer di turno apre la porta 234 attraverso un walkie-talkie collegato alla centrale di detenzione. La ragazza di colore dall’aria severa come la sua divisa, mi dice: «you leave!». Credevo dovessi uscire solo un momento per il controllo sanitario di prassi o per una “visitation” con chi della burocrazia, come la chiamano loro. E invece no, avrei potuto fare finalmente ritorno in Italia. Non ci credevo molto, in quanto ebbi molti messaggi confusi al riguardo durante tutto il tempo della mia detenzione, sia da parte del console italiano che dall’officer Taylor – una giovane nera di corporatura robusta ma molto piacente che lasciava sempre dietro di sé una scia di buon profumo – la quale si occupava dei rapporti tra detenuti e funzionari di giustizia. Costoro verso di me furono freddi e molto distaccati, anche se a parole potevano essere sembrati premurosi nei confronti della mia situazione; il loro linguaggio del corpo però smentiva la parvenza di questi sentimenti.

Ricordo ancora quando al console raccontai che l’amministratore condominiale della mia casa a San Lazzaro era stato corrotto per farmela perdere, come il diplomatico digrignò i denti senza rendersene conto, quasi si fosse sentito parte in causa. Egli venne a trovarmi due volte in cella: la prima volta fu molto lusinghiero e prodigo di rassicurazioni sul mio rimpatrio in Italia, dove sarei stata finalmente aiutata dalle Istituzioni che avrebbe dovuto sollecitare nel far luce sulla mia vicenda; avevo provato a dirgli che volevo rimanere in America, ma lui smontò tempestivamente questa mia intenzione sul nascere. Dopo la seconda volta, non ebbi più dubbi in merito a un suo coinvolgimento: per il giorno dell’udienza tenuta in detenzione, mi aveva promesso che vi avrebbe preso parte allo scopo di snellire le procedure; invece non si fece vedere.

Già la prima volta che lo contattai, quando ancora era “pulito”, mi disse che sarebbe venuto l’indomani in cella perché non avrebbero dovuto in alcun modo trattenermi, visto che ero regolare, e anche l’asilo politico l’avrei potuto chiedere fuori tranquillamente, della cui cosa il funzionario della dogana mi mentì in modo premeditato dopo essere stato piegato affinché finissi in questa trappola; ma passarono sette giorni, tempo entro il quale corruppero pure egli.

Durante il trasferimento dal centro detentivo Elisabeth nel New Jersey all’aeroporto di Newark, cercai di pensare in positivo affondando l’idea che non sarei più stata libera, e predisponendo la mia mente a cose belle, così che ripercorsi anche i momenti buoni del passato per poi finire con il rimuginare di nuovo sul mio rientro: in che modo sarebbe avvenuto, se ad attendermi, cioè, avrei trovato o meno dei conoscenti (i miei genitori e l’amico F. M. oggi scomparso, al tempo responsabile dell’ausilio coop di San Lazzaro, presso cui avevo fatto volontariato e con il quale mi confidai, tenendomi in contatto per lettera anche da lì) oppure, al contrario, dei perfetti estranei.

Invece lungo il tragitto aereo decisi di guardarmi qualche film, giusto per allontanare i pensieri brutti e rilassarmi. Avevo scelto due commedie esilaranti le cui trame si assomigliavano: “la solita ragazza goffa che diventa farfalla!”. Mi sono ritrovata nelle avventure di entrambe le protagoniste e per un po’ ho rivissuto la serenità di quel mondo adolescenziale, dove ancora non devi preoccuparti dell’affitto, del lavoro e nel mio caso anche della mafia.

Stavo cominciando a reagire mettendola da parte quando mi riusciva dopo il trauma di vedere infranto per sempre il mio sogno di libertà, costituito da quel mio viaggio in America, pur rassegnata che fossi di non riavere mai più la mia vita di prima; feci esercizio in detenzione di seguito a tre giorni di pianto senza tregua nel vedere fallito anche quel mio ultimo tentativo di fuga. In questo modo avevo ripreso a sorridere, a chiacchierare di cose futili e – cosa assolutamente inaspettata – a sognare nuovamente, sebbene non sapessi che altro aspettarmi.

Ad ogni modo continuai a soffrire molto per tutti quelli che non credevano alla mia storia o mi tenevano comunque a distanza dopo essermi aperta con alcune di queste persone, come accadde con le compagne di cella alle quali avevo cercato di spiegare perché mi trovassi lì; non a caso, mi venne fatto il deserto intorno da parte delle ragazze di colore, che con la loro leadership mista a un certo bullismo coinvolsero anche le altre bianche più fragili nel deridermi, sia per il mio scarso uso della lingua inglese che per il fatto che mi dichiarassi una vittima di mafia, quando evidentemente secondo le “sisters” ero troppo “sfigata” da poterlo essere.

Fortunatamente mi feci pure delle belle amicizie; poche ma buone. Forse ad avermi turbata maggiormente, fu l’omertà rispetto a tutto quello che dovetti subire nel più completo silenzio, piuttosto che l’effettivo stretto contesto di riferimento, benché folle: una simulazione in cella di ciò che mi era accaduto nella mia casa a San Lazzaro. Infatti, nei tempi prossimi alla mia fuga dall’Italia, tra le tante molestie dentro le mura domestiche con cui mi ritrovai a dover fare i conti, ce n’era una verso alcuni miei vestiti che trovavo rovinati di continuo. In particolar modo, il mio stalker era solito “impallinarmi” di lanuggine o cotonati chiari gli abiti dai tessuti scuri e quelli chiari da dei pallini scuri. Probabilmente il suo vedermi ammattire su tale cosa bizzarra fra le tante patologiche di questi, nelle quali mi lasciava annaspare all’interno della mia abitazione dove mi spiava con le telecamere a me nascoste ma di cui ero certa della presenza, lo divertiva molto! A questo fatto, si aggiunse il mio frequente rinvenimento non appena mi svegliavo la mattina da una notte di profondissimo sonno (…??), di certi lividi sulle gambe seguiti da relativo gonfiore che quando mi coricavo la sera, non c’erano affatto.

Un esempio dei pallini chiari sui tessuti scuri che mi faceva ritrovare sempre il mio stalker sui miei abiti che lasciavo incustoditi (quest’ultima è di un fatto recente, rispetto alla molestia di cui sto parlando che mi faceva diversi anni prima in modo frequente)

Episodi in un certo senso “kafkiani”, questi, che riscontrai pure sin dalla prima notte trascorsa nella struttura detentiva, dove accadde che anche nei miei cambi costituiti dalla biancheria di coperte e lenzuola nonché dalla divisa, riconobbi i medesimi segni dei quali ho poc’anzi accennato; tracce inequivocabili del suo passaggio che probabilmente avveniva di notte, poiché giusto al mio risveglio prendevo atto dei suddetti “episodi kafkiani” con un certo sgomento. Curioso a questo proposito la circostanza per la quale io e le altre due ragazze che eravamo state isolate come da regolamento, nei primi cinque giorni di detenzione, in una cella a parte per il controllo del vaccino dell’antitetanica, ci svegliassimo tutte insieme allo stesso momento… Quasi a significare che per tenere addormentata me, dovessero farlo anche con loro.

Ad un certo punto, nel riguardarmi riflessa allo specchietto che tenevo in borsetta, non riscontrai più quell’avvenenza da sempre appartenutami: mi ero davvero sciupata con quest’ultima esperienza traumatica! Provai amarezza, sebbene in fondo ai miei occhi riuscissi ancora a intravedere il fioco bagliore di tutta la mia luce… tra i pensieri e le emozioni che mi attraversarono durante quel mio volo aereo.

Fortunatamente seduto vicino a me, c’era un uomo italiano del Sud molto gentile e simpatico che cercava in tutti i modi di rendersi utile, pur di accattivarsi la mia attenzione, tale da rendermi quello strano viaggio un po’ più spensierato. Giunti al terminale aeroportuale di Milano, passai davanti alla Polizia doganale perché mi venissero a prendere delle persone (non furono molto chiari prima di partire, infatti, se i miei genitori che dovevano essere stati avvisati o degli sconosciuti), per riportarmi nella mia città; ma avevano sbagliato giorno del mio rientro, mi comunicarono all’ultimo momento. Pertanto, attesi sette, otto ore là dentro senza poter mai venire a conoscenza  del mio imminente destino.

Fino a quando la responsabile di detto ufficio, alla quale stavano impartendo direttive precise per telefono mentre io le stavo dinanzi e assistevo impotente alla corruzione in corso – eloquente in tal senso fu una frase che le uscì di bocca all’altro capo del filo, come se non potessi intenderla: «Sì, è strana!» –, mi invitò a riposare nell’unità di pronto soccorso dell’aeroporto milanese e poco dopo un’ambulanza – con l’alibi che fosse ormai troppo tardi – mi scortò all’ospedale psichiatrico vicino di Gallarate (Milano), in cui venivo a sapere solo a trappola scattata del TSO prescrittomi: un trattamento sanitario obbligatorio che uno psichiatra, che non conoscevo, mi avrebbe fatto attraverso il console del New Jersey.

Cercai di ribellarmi ma una volta là dentro, le finestre le trovai sigillate insieme alle porte chiuse a chiave dal personale, e infine, venni stordita con una iniezione che mi fecero contro la mia volontà. Il giorno seguente fui trasferita in un ospedale di Bologna del medesimo reparto, rimanendovi un altro mese ancora. Qui, stetti ancora peggio dell’Elisabeth Detention, in quanto laggiù, almeno, eri rifornita di tutto: dal mangiare (cucina continentale) alla toilette personale (sapone, dentifricio, asciugamani, coperte e tuta giorno, notte con cambio ogni tre dì); ciò di cui avevi bisogno in più, dall’Istituto la potevi ordinare (medicine, trucchi, o dolci) se la pagavi coi soldi che ti venivano trattenuti all’ingresso. In quest’altra struttura, invece, te la devi portare da casa tu la roba o chi per te, oppure stai senza; la stessa cucina era pessima: da ospedale, per l’appunto.

Questo l’epilogo del mio viaggio della speranza.

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