Capitolo 22: RITORNO A BOLOGNA

A ottobre 2007 arrivai a Bologna, dopo prima essermi messa d’accordo con E.M che ripresi a sentire per telefono; dalla montagna lo avevo infatti contattato per sapere se l’altro locale di R.F., sempre in via Pasquali Alidosi accanto a quello che questo mio amico comprò dallo stesso, poi rivendette qualche anno più avanti e che utilizzai anch’io a suo tempo, fosse stato ancora libero e ad una sua risposta affermativa gli feci fare il contratto, non avendo avuto io allora una busta paga. Lui sarebbe dovuto figurare il mio garante, ma il Sig. F. non fu corretto sin dal principio visto che si concordò inizialmente a tre mensilità di deposito che dovevano fare già d’affitto corrente, con il proprietario che cambiò le carte in tavola, all’ultimo secondo, dicendo che avevamo capito male: come da tradizione, non a caso, egli pretendeva le solite mensilità quale caparra più quella entrante di locazione, per un totale di quattro affitti. E ancora in sede di formulazione del contratto medesimo, espresse anche l’esigenza di far venire nell’immobile che affittava a me temporaneamente, un impiegato dell’agenzia incaricata per la vendita dell’oggetto immobiliare perché lo voleva appunto vendere, assieme ad un qualche suo cliente che ne fosse stato interessato di esso; benché pure per questo fatto, gli avessi fatto ben capire, primariamente, che non avrei gradito l’irruzione di nessun’altro lì dentro dove alloggiava la mia persona, seppur per un breve periodo; ma pure qui, il proprietario cambiò la versione delle cose, improvvisamente, poiché a suo dire, rientrava nei suoi diritti facendo, quindi, orecchie da mercante a quello che erano state le mie condizioni iniziali, imbattendoci pertanto in un’accesa discussione. La quale, terminò con il rifiuto di entrambe le parti di arrivare ad un compromesso, per lasciare conseguentemente il tutto, in sospeso, ad oltre il week – end, dal venerdì in cui noi tre ci eravamo ritrovati nel suo studiolo del palazzo gemello, accanto a quello in cui sarei dovuta andare ad abitare nell’imminente.

Dopo qualche giorno ci rincontrammo nuovamente sul posto, arrivando alla mediazione che per almeno il tempo della mia permanenza in ivi, nessuna agenzia avesse tenuto le chiavi; il proprietario ad ogni modo anziché averlo intestato a me in qualità di conduttore, lo fece a questo titolo al mio amico E., fingendo una distrazione a cui non poteva più rimediare, essendo stata la documentazione ormai già pronta per rifarla nuovamente da capo; facendomi però rientrare beffardamente come garante, se solo lo avessi voluto. Ma non potendo la sottoscritta medesima rischiare in quel periodo di accollarmi delle spese, dal momento che non lavoravo ancora da nessuna parte, fui costretta ad accettare di venire esclusa dal siddetto rapporto di locazione, pur sapendo che in questa maniera, avrei perso ogni diritto in condominio di esercitare la mia volontà per eventuali rivalse legali da possibili molestie o disagi fra i condomini, che presto iniziai a subire, come da protocollo.

E.M. mi formalizzò comunque con un certificato firmato, quale sua ospite, alla Questura, anche se però lui, sarebbe poi andato a vivere altrove in un altro immobile, non tanto lontano da me, in via dei Lamponi, e successivamente in via Lombardia, entrambi nella zona Savena di Bologna; mentre io avrei vissuto in questo nella zona del Fossolo, pagandomi le rate dell’affitto, in quanto il mio amico mi aveva giusto anticipato le spese di contratto, pensando che un giorno il tal immobile, gli avesse potuto far di nuovo comodo pure ad egli.

Contratto d’affitto in via Pasquali Alidosi

Lettera dell’avvocato del proprietario di cui sopra per delucidazioni sulla mia permanenza in esso e sulla mia destinazione ad uso abitativa, che non erano entrambe a me consentite.

Al piano terra di questa mia nuova sistemazione, ce ne era stato, come già detto, parallelamente, un altro di locale di circa 15 mq. che qualche anno prima che passasse da una proprietà all’altra, fungeva da portineria;

I DUE LOCALI DI FERRARI E PANCALDI, ENTRAMBI AL PIANO TERRA

e che E.M aveva, a suo tempo, appunto comprato, consentendo in seguito a me di poterci lavorare dentro, anche se a lui di nascosto; il quale oggetto immobiliare, ora, apparteneva alla Sig.ra P.M.; il Sig. F., il marito di quest’altra proprietaria, si trovava  lì, un giorno, per sistemarlo delle ultime cose, volendolo posteriormente affittare a qualche d’uno ad uso pièd-a-terre, dopo che per tutta l’estate lo aveva aggiustato e attrezzato il più possibile di ogni necessità abitativa: dal frigo, alla lavatrice, al divano letto fino all’armadio con qualche pensile a muro; tutto questo, in un vano utile grande all’incirca come un’ascensore per 10 persone.

IL LOCALE DI PANCALDI ARREDATO DI TUTTO PUNTO

Un pomeriggio che bighellonavo intorno lo stabile, ci feci due chiacchiere con questo signore, il quale, me lo fece vedere prontamente. Era impressionante, a quanto fosse diventato carino, nel frattempo, sebbene in uno spazio tanto ristretto. Ci accordammo a non fare nessun contratto scritto, salvo che lo pagassi di tre mensilità in anticipo – che facevano già da affitto corrente come avrebbe dovuto esserlo per quello del Sig. R.F. – , fino a Natale in cui ci saremmo rivisti, per dopo da allora averlo cominciato a pagare di mese in mese.

ALTRI ARREDI PARTICOLARI DELL’IMMOBILE DI PANCALDI

Tutto sembrava di nuovo possibile. Sennonché cominciarono ad arrivare dei muratori, giusto non appena che io ebbi finito di accordarmi verbalmente coi proprietari degli immobili dove mi ero da poco sistemata; i quali mi circondarono, dovunque: da dietro il palazzo di proprietà del Sig. R.F., fin sotto al portichetto della finestra della Sig.ra P.M, in cui un muretto preesistente a terra di mezzo metro, lo delimitava dal resto del poggiolo condominiale. Puntualmente, questo veniva scavalcato con una rincorsa da costoro, per saltarvi al suo interno nel suo ristretto cortile che si era ricreato, per atterarvici essi con un balzo;

PARTE DIETRO DI FERRARI DOVE SI VEDA IL MATERIALE EDILE NELLO SFONDO, E PORTICHETTO INTERNO DI PANCALDI

 e in cui da dentro le sue mura, ove mi ritrovavo io, ogni qualvolta mi prendeva quasi un colpo! Oltre alla questione, che così facendo mi sollevavano della polvere che mi entrava inellutabilmente da dentro la finestra, che tenevo sempre un po’ mezza aperta, poiché a questi eventi, dal vano interno dello stabile presero simultaneamente a sprigionarsi i consueti miasmi che mi entravano da sotto l’uscio della mia porta.

PARTICOLARI DELLA PORTA E DELLA FINESTRA A BASISTA DEL LOCALE DI PANCALDI

E i quali fetori prima non c’erano stato affatto, allorquando mi decisi di andarci ad abitare; e a essersi propagati proprio da quel momento lì in poi. Contemporaneamente a ciò, i carpentieri iniziarono a fischiarsi fra di loro da cielo a terra, e viceversa, per comunicarsi delle cose di lavoro, nonostante avessi chiesto a questi a più riprese dal redimersene da quella frequenza ravvicinata. Di fatto continuarono a molestarmi, facendo finta di non ricordarsi delle mie lamentele, e mi cominciarono a ridere da dietro le spalle o a sogghignarsi l’un all’altro in modo complice e sapiente.

Fortunatamente, in quel periodo, trovai un lavoro attraverso un’inserzione sul giornale, come addetta mensa in un comando delle Forze dell’Ordine in generale (di Polizia, di Carabinieri e della Guardia di Finanza). Il posto si trovava in centro, vicino alla stazione dei treni e l’ambiente era ottimo e soprattutto molto giovanile; ma purtroppo non ci feci un mese, poiché in questo modo era già stato deciso a priori, per mezzo di una trappola: il capo chef, il mio primo giorno di lavoro mi fece difatti uno strano discorso, subito dopo il nostro colloquio conoscitivo avvenuto una settimana prima, quando ancora era andato tutto bene. E il quale discorso, a quanto pare, lo ebbe a fare solo a me. Mi disse, giust’appunto, “che se fossero saltati fuori dei miei precedenti penali, dovendo io lavorare in Polizia, sarei stata immediatamente licenziata”. Peccato però che la stessa cosa non fu detta anche agli altri miei colleghi, nell’averlo cercato di appurare questo tipo di monito rivolto esclusivamente a me, di ritorno nel mio ambiente di lavoro. Di seguito ad un primo conflitto autentico con una collega africana perché la nuova azienda ristoratrice appaltatrice, la voleva “silurare”, mettendole molte difficoltà – la quale donna di colore, aveva trovato in me terreno fertile per poter la stessa, riuscire ad emergere a questa ragione – , e a distanza di qualche giorno con un altro lavoratore, questa volta, di natura fittizio, in maniera che sembrasse la mia persona, che ero l’ultima arrivata, quella, in difetto, mi si convocò inaspettatamente a rapporto durante un mio giorno libero, per una riunione urgente con quasi tutto lo staff; in detta circostanza spiacevole, qualcuno, di corrotto mi puntò il dito per le problematiche gestionali del nostro personale, nonostante in verità fossi stata la più efficiente… In effetti, precedentemente, a questo episodio stava filando tutto liscio, tanto da essermene sentita particolarmente felice, allora, di lavorare in quel luogo, benché lo stipendio non bastasse a viverci. E oltre a ciò, dovevi fare dei rientri lì, nell’arco della stessa giornata che mi rendeva impossibile cercarmi un altro impiego da affiancarci vicino. DOCUMENTI IN LETTERE 36 -46 NEL POSTO DI LAVORO CHE HO PERDUTO IN POLIZIA. La complicità di uno dei miei due capi, una donna 40 enne (la signora Marilena) che mi sporcò agli occhi della responsabile chef della mia età (la signora Elena) per delle piccole cose (come per es. che chiamassi “elemento”, anziché collega uno dei lavoratori, poiché era svilente, quando invece lo avevo fatto di chiamarlo in quel modo, solo per indicarlo nel puro senso tecnico del termine, e altre stupidaggini di questo tipo), la quale ultima, si fece alla fine pure lei dalla prima “infinocchiare”, dopo essere stata corrotta al termine anch’ella, sino a costringermi a dare le dimissioni per giusta causa, se no in caso contrario avrei avuto vita dura, come la stavano rendendo così quella della mia collega, fu, fra i diversi futili motivi, la rete ad essermi stata tesa, perché al termine gettassi la spugna.

Alle prime lo chef E. le rifiutò, tant’è che da contratto determinato mi voleva passare direttamente a tempo indeterminato; ma nel calderone venne coinvolta infine pure lei, iniziando a comportarsi come alcuni colleghi che erano già stati corrotti: derisione per ogni cosa che facessi o dicessi senza ragione, perché il mio licenziamento fosse autenticato. Solo quando le svelai che avevo la mafia durante quella convocazione in cui mi ammutinarono tra il brusio della vessazioni inveitemi addosso in modo ingiustificato, vidi sul suo viso dipingersi una fulminea come non di meno sconcertata realizzazione per quello che mi stava succedendo e dove era stata coinvolta lei stessa anche se in maniera inconsapevole, ad inaugurare il mio primo giorno di lavoro qui, dove non ne arrivai a fare di trenta di giornate.

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