Capitolo 9: Fuga verso la libertà

Quella notte, a poche ore dal fatto, cercai di elaborare ciò che era successo, guardandomi tuttavia dal farmi sfuggire dei sospiri o dei commenti a voce alta: ero certa, infatti, di avere delle telecamere nascoste in casa sebbene non potessi localizzarle. Ciò lo ipotizzai da delle prove che avevo già fatto: ritrovai segnato di inchiostro un foglio bianco che avevo arrotolato apposta dentro alla manica di una maglia messa su uno stendino lasciato in casa, dopo che ero uscita per un paio d’ore. Di conseguenza mi aggiravo fra le mura domestiche in modo circospetto ma facendo finta di niente. Sapevo benissimo che i miei occhi venivano monitorati e nel guardare le pareti e il soffitto di casa per trovare una soluzione, rimasi il più possibile impenetrabile. In realtà mi si era rotto tutto dentro: una cosa, questa, di cui non volevo dare alcuna soddisfazione a quello psicolabile del mio carnefice, pur cosciente di essere ormai in trappola. Una dimensione, quella, che era lo specchio delle rispettive dinamiche comportamentali di ognuno, in quanto vittima e carnefice; come fosse stata la nostra una partita a scacchi e che avrebbe suscitato l’invidia dei più acclamati format di reality.

Dunque, qualsiasi iniziativa avessi preso verso una qualche via di fuga, come ad esempio preparare una valigia, sarebbe stata controllata per tempo dall’altra parte, allo scopo di impedirmelo. Per questa ragione l’indomani decisi di chiamare da un telefono pubblico l’aeroporto di Milano per conoscere gli orari dei voli per New York. Era infatti l’unico modo per impedire di essere intercettata dallo stalker mafioso, che, nella sua azione di molestia, poteva avvalersi della collaborazione di varie persone. Sarei partita nel primo pomeriggio del giorno seguente, dopo aver sbrigato gli ultimi dettagli durante la mattinata: dalle pratiche in banca per ritirare del denaro alla scelta di cosa portarmi dietro.

La stessa partenza da Milano Malpensa avrebbe dovuto prevedere un primo tragitto in taxi da Bologna perché, a mio avviso, il percorso in treno sarebbe stato troppo dispersivo facendo guadagnare terreno al molestatore. Anche se esternamente non lasciavo trasparire le mie intenzioni imminenti di voler scappare, lui riuscì comunque ad intuire qualcosa: il lezzo che esalava dal pianerottolo di casa quando ritornai dalla telefonata fatta fuori, si fece più intenso, tanto da farmi vacillare. Era certo questo un preciso messaggio del molestatore. Cercai comunque di restare impassibile proprio per non destare alcun sospetto in chi mi stava spiando attraverso le telecamere. Preparai quindi le valigie alle prime luci del mattino, enunciando ad alta voce – come se parlassi tra me e me – che sarei ritornata da mia mamma a Molinella nel tentativo di depistare lo stalker. Ma non servì a nulla.

In quel periodo i taxi che chiamavo arrivavano ogni volta più sporchi e anche l’autista non era il massimo della pulizia, al punto da costringermi a farmi scaricare poco dopo essere salita e chiamare un’altra vettura. Stranamente il giorno della mia fuga in America, arrivò un’auto perfettamente pulita e pure il taxista mi parve fin troppo azzimato. Sembrava quasi fatto apposta per non indurmi a cambiare auto. Ma la particolarità di questo taxi era data dal suo specchietto retrovisore, sopra il quale era posta una piccola telecamera, che prima di allora non avevo mai trovato in altre vetture. Inoltre il ragazzotto alla guida si mostrò eccessivamente gentile e propenso al dialogo, come se volesse che io parlassi molto dei miei progetti, dandomi l’impressione che sull’auto fosse installato una ricetrasmittente.
Gli chiesi il perché di questa installazione e lui rispose che era necessaria a causa della microcriminalità crescente che minacciava la sua categoria.

A metà del tragitto facciamo una sosta in autogrill: il taxista andò al bar per un caffè mentre io scesi dall’auto per prendere un po’ d’aria. Non appena uscita dalla macchina mi accorsi che un’utilitaria nera, credo una Citroen, aveva rapidamente parcheggiato dietro il taxi. Vidi scendere dall’auto due tizi: quello che mi sembrava avere una faccia conosciuta si fermò di fianco alla macchina assieme al compagno di viaggio, poi si allontanò, scomparendo dalla mia vista. Il bieco soggetto rimasto, iniziò a fissarmi senza mai staccarmi lo sguardo di dosso. Per esperienza sapevo bene che dovunque in quel periodo io andassi venivo seguita e controllata. Tuttavia mi riservai lo stesso un margine di dubbio, provando a volgere lo sguardo altrove. Quando però tornai a guardare verso l’uomo, scoprii con angoscia che i miei timori si erano rivelati fondati: il tizio continuava ad osservarmi imperterrito con aria persecutoria e con la determinazione degna di un vero mercenario: fredda e spietata. Dopo una decina di minuti il taxista fece ritorno col ghigno divertito di chi è complice fino al midollo di quel gioco crudele in cui io ero la vittima. Mi domandò beffardo se andasse tutto bene. Annuii prontamente nel tentativo di nascondere il mio incupimento per questa fuga che mi sembrava ormai fallita sin dal principio.

Ci rimettemmo in marcia verso l’aeroporto di Milano ed io cominciai a nutrire la speranza, o meglio dire l’illusione, di riuscire davvero a fuggire, augurandomi che le mie sensazioni fossero sbagliate e che quei tizi non ce l’avessero con me.
Ma poco dopo essere ripartiti l’autista riprese a tempestarmi di domande, quasi come se volesse corteggiarmi e lusingarmi, quali: “Ma dove va questa bella signorina?..” “E poi cosa farai?”, ecc.

Ottenendo al contrario, la mia chiusura più totale. Nel frattempo sfidavo il mio persecutore guardando fissa verso la telecamera dello specchietto, attraverso la quale ero certa di essere osservata dal misterioso stalker, interessato a capire cosa mi passasse per la testa. Chi avrebbe creduta a questa storia? Non ero nessuno eppure un plotone di tipi strani sempre diversi (solo qualcuno di loro lo rivedevo di frequente), intralciava continuamente il mio cammino. Il movente? L’invidia della mia luce interiore e soprattutto di quella esteriore per suo riflesso. Purtroppo però, sia la mia famiglia che il mio piccolo mondo di riferimento, ai quali chiesi aiuto, si rifiutavano di credere a tutto ciò; forse per la ragione che nessuno ne era molto felice della causa medesima per la quale venivo molestata, avendone constatato da sempre “la stizza” di tutti verso la mia bellezza.

Niente di più facile, quindi, per il mafioso persecutore che procedere indisturbato alla mia distruzione. Quando arrivammo a destinazione presso il terminale dell’aeroporto, acquistai il biglietto e mi diressi al check – in. Pur essendo il mio primo volo me la cavai con disinvoltura e sbrigai senza problemi le procedure d’imbarco, considerando che partivo con una “taglia” da ricercata addosso. A dir la verità, già un’altra volta avevo fatto un primo sopralluogo all’aeroporto di Bologna per studiare quella via di fuga che al tempo presagivo come una necessità molto vicina. Mi sentivo felice e sollevata all’idea di essere riuscita ad imbarcarmi senza che insorgessero altri problemi o che qualcuno tentasse nuovamente di ostacolarmi, tanto che a bordo della navetta d’imbarco mi sentii quasi spensierata e iniziai persino ad assaporare quella sorta di libertà che credevo di aver finalmente raggiunto.

Penso di non aver scelto casualmente New York, che con la sua Statua della Libertà rappresentava perfettamente l’emblema del mio viaggio verso una nuova vita. Una speranza che, però, si rivelò presto disattesa.

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