Esilio al convento del Terrapieno

PARTE DIETRO DEL CONVENTO DELLE SUORE DELL’ORDINE DI MADRE TERESA DI CALCUTTA (La data della foto e’ sbagliata).

INTRODUZIONE

In seguito alla mia fuga dalla clinica psichiatrica di San Giovanni in Persiceto, sempre a piedi, lungo le sue campagne per sfuggire, stavolta, alle possibili volanti della Municipale o di quelle delle varie Forze dell’Ordine impiegate per la mia cattura, provai di ritornare verso Molinella, grazie anche al “salvifico” passaggio di un’automobilista che mi raccolse ad un certo punto dal ciglio di una strada extraurbana. Dopo tutto, erano ormai trascorsi i sette giorni previsti dal trattamento sanitario coatto, sebbene non lo dicano, detto fatto, al paziente, dell’effettivo termine dello stesso, di proposito, e che sarebbe appunto di una settimana solamente, per poterti intrattenere dentro ulteriormente, costringendoti in questo modo il dottore responsabile di una struttura, a farti rimanere imprigionata al suo interno addirittura per oltre un mese; pertanto non avevo assolutamente infranto alcuna regola, andandomene via da là, visto il vero e proprio sequestro di persona del quale si tratta, effettivamente, che avevo subito allora, con coercizione, come da altre precedenti volte, seppur legalizzato; e dove però non feci in tempo a raggiungere il mio domicilio, in cui io e la mamma ci riabracciammo, entrambe, al termine, molto emozionate, dato che le ero stata strappata dalle braccia per l’ennesima volta, ma in quest’ultima circostanza particolare a sua insaputa, quando al quarto giorno, dal tale mio paese del cavolo fui costretta ad andarmene nuovamente. Sin dal principio, infatti, mi scontrai con la stessa ritrosia di mia madre per poter io continuare a rimanere a casa con lei, e che era più dettata da una forma di demenza senile allo stadio iniziale che l’aveva colpita di recente, e per colpa della quale fu la mia persona, ad esserne stata fatta infine segno, erroneamente, di una repressione psichiatrica. Di conseguenza un giorno sì ed uno no, c’erano dei problemi di convivenza con ella; e per la cui situazione drammatica che si creo’ con questa sua malattia, nel diverbio che ci fu fra me e lei prima del TSO in oggetto che mi venne fatto a me, a causa appunto dei “suoi” di problemi di salute, come ho gia’ detto, in definitiva, ci aveva rimesso “le penne”, la sottoscritta medesima. Tutto cio’, avvenne soprattutto in virtu’ di una falsa dichiarazione da parte di mio padre nei miei riguardi, ai Servizi d’Igiene Mentale, verso cui mi interdi’, poiché non vivendo lo egli, più con noi da molti anni per la relazione famosa che intrecciò con un’altra donna molto tempo fa,

LA DONNA ED EX SINDACO DEL MIO PAESE CON LA QUALE MIO PADRE HA UNA RELAZIONE DA QUANDO SONO NATA.

che l’allontanò dal tetto coniugale all’epoca dei miei sedici anni, non poteva questi certamente aver visto la regressione mentale della moglie – mia madre – , per rendersi conto, che fosse stata, costei, il vero problema e non la figlia che l’accudiva, come invece volle far credere all’U.s.l di Igiene Mentale: nella fattispecie, di questa cosa, se vogliamo anche un po’ in modo premeditato per delle accese conflittualita’ tutt’ora in essere da parte del babbo nei miei confronti, dandomi perciò a loro in pasto per la terza volta, nell’accordarsi con i suoi operatori per un mio internamento (da quello che risulta da un documento che ho ritirato sulla mia anamnesi psichiatrica di circa un suo coinvolgimento a questo proposito); e per la cui tal questione, quella ovvero della natura ambigua del nostro rapporto padre e figlia che non desiderò, egli, per primo, proseguire ad avere più di tanto con la mia persona, già dall’inizio, non doveva quindi per la medesima ragione conoscermi molto bene, neanche a me, successivamente alla sua separazione dalla mamma, per farsi lo stesso genitore, a questo merito, da referente: il quale, infatti mi perse di vista, da quando ero diventata un’adolescente, pur avendoci mio padre sempre tutte quante mantenute; e il cui rapporto figliale non molto coltivato da ambo le parti, lo si deve anche alla motivazione che non essendoci mai andata molto d’accordo pure io con lo stesso papa’, durante l’infanzia, evitai di reclamarne l’assenza sin da subito, perche’ in casa era stato un autoritario; di qui il suo indispettimento.

Parallelamente all’umore altalenante di mia madre nell’incedere della sua progressiva malattia, l’avversità eterea della sorella minore che si accanì contro di me, in quanto invidiosa del fatto che mentre la stessa, si dovesse fare “il mazzo” per campare, tradendo un’afflizione personale di trovarsi costretta a lavorare per pagare solo delle gran tasse cui mi si recriminava di non adempiere in ugual misura a lei, Carla – secondo Veronica – se la “grattava” a restare tutto il giorno a casa con la mamma a “non fare un c.”, tal che mi minacciò qualche giorno dopo dal mio ritorno all’ovile, che avrebbe ottenuto di farmi scacciare ancora dalla mia abitazione, portandomi cosi’ ad essere stata costretta di nuovo a dovermene andare via da casa a gambe levate, avvenne in questo suo procedere d’intenti che la medesima, al termine, ci riuscì di li’ a breve, ad ottenere di fare breccia al suddetto bersaglio. Questo, per mezzo di una sua richiesta di pronto intervento dei Carabinieri al mio domicilio, facendomi li’ sopravvenire contemporaneamente a loro, il papà, perché l’appoggiasse nel suo disegno ambizioso; e che fu dovuto il tutto ad un semplice momento di tensione che io e la mamma ebbimo avuto un giorno di quelli! In pratica, era successo, che essendo stata questa mia sorella contattata al telefono da nostra madre, per una stupida discussione che avevo avuto con ella, la quale l’allarmò esageratamente rispetto alla dimensione reale del fatto che le sottopose, la “consanguinea” in questione approfittò della tal situazione che si era venuta a creare a proprio stretto vantaggio, per potermi finalmente esercitare tutta la sua prepotenza, allo scopo di impedirmene definitivamente il proseguo della mia permanenza li’, ritenendola, essa, la suddetta “vigliacca”, probabilmente una condizione a me privilegiata; in realtà, a dispetto di ogni parvenza, godereccia, mi stavo iniziando veramente a calare nei panni di una badante, perciò non mi stavo divertendo affatto. Non a caso, furono i sopracitati militari dell’Arma (solo certi personaggi corrotti all’interno della brigata di Molinella) ad avermi organizzato piano, piano quella terza sevizia psichiatrica per le tante cose che sapevo e che dal tal periodo di riferimento nel quale ero ritornata al paesello, ne compresi di nuove, per cui fui alla fine messa in silenzio, con l’alibi delle conflittualità famigliari (vedi nel cap. 27, ad esempio la trappola del giorno 10 ottobre 2015 che mi fu tesa); dunque, mio padre assumeva un ruolo vitale in questo progetto, infimo, nel prepararmi certuni di questi ufficiali corrotti il siddetto terreno. E quindi veniva lusingato ogni volta dalle U.s.l di Igiene Mentale (sempre da parte di alcune figure coinvolte in capo ad essa) a farmi rinchiudere in una struttura ospedaliera “in nome del mio stesso bene”; e la sorella famosa che ne era più o meno consapevole di questo fatto, ovvero che sia nostro padre sia le Autorità Cittadine volessero la mia pelle, poté sempre contare su ambedue le forze, per un’azione repressiva sinergica nei miei confronti in qualsiasi momento, facendosene incetta di ciò a più riprese. In un ultimo tentativo disperato, invocai la mamma, di dirle qualcosa, a Veronica, a proposito di quel suo atteggiamento autoritario fuori luogo nei miei confronti, avendo costei undici anni in meno di me, e con cui mi cercava di calpestare continuamente ed insieme ne forgiava il suo ego, attraverso il mio sangue, pur non capendo nostra madre di averglielo alimentato ella stessa, e cioè di non lasciare che fossi succube della “piccolina”; in quanto se voleva poteva tirarle le briglie, ma impietrita da un asciutto: “No, non posso!”…, vidi crollare tutte le mie speranze di ricostruzione post-bellica dalla fresca bastardata psichiatrica famigliare, dalla quale cercai di rinvenire subito dopo che usci’ dalla clinica, fra le tante inflittami dai miei stessi parenti.

CORPO DEL TESTO

Misi quindi in borsa i soliti pochi stracci e mi portai verso Bologna, che trascorsi a casa di un qualche pseudo amico, talvolta per mezzo di uno scambio in natura, come al solito mal remuneratomi: un letto boehiamo più qualche vivere grazie al mio sesso. Anche se i primi giorni li feci in albergo, con i soldi che rubai a mia madre, per quello schiaffo che mi aveva riservato; ma dopo che questi furono finiti, mi ritrovai a dover svernare come al solito in un Pronto Soccorso dell’Ospedale Maggiore, in cui ero già andata cinque anni prima, allorquando senza una fissa dimora, rimanevo qualche volta per strada se i clienti non mi commissionavano per dopo un rapporto, farmi rimanere a dormire presso di loro, o se andavamo negli alberghi nei quali poi mi intrattenevo solo io, il più delle volte da sola, alla fine del mio massaggio ad essi, divenendo pertanto la struttura ricettiva una sorta di alloggio temporaneo, che sostituì la mancanza di un vero e proprio tetto sopra la testa in un determinato periodo della mia vita. Ciò di cui avevo, in realtà, proprio bisogno allora: la massima libertà di movimento in generale, da così disseminare anche meglio la mia mafia. E il quale Pronto Soccorso, grazie all’emergenza freddo di quell’anno in corso trovai, questa volta, più accessibile.

Però non riuscendovi li’, piu’ a riposare molto bene, mi informai per andare a dormire in un dormitorio. Domandai percio’ al punto di informazione di Bologna il numero telefonico degli Assistenti Sociali, e in uno di questi loro centri: “BASSA SOGLIA”, mi parlarono del Convento del Terrapieno, dandomene l’indirizzo. Pur tuttavia, attesi che la disperazione mi pervase pienamente, un giorno di quelli che arrivai ad una ormai matura disillusione dell’amico – cliente di turno che fino alla fine, mi aveva promesso una sistemazione da lui, per rimangiarsi all’ultimo momento la parola data ad una mia richiesta d’aiuto, e dovuto questo ad una sua presunta implicazione con la mia mafia che lo aveva corrotto, prima di presentarmi al cancello della struttura d’accoglienza. Suonai in un tardo pomeriggio, e una suora sbirciò fuori dal portone della grande casa padronale verso il cortile d’ingresso, per chiedere di cosa avessi bisogno. Le dissi che non avevo un posto in cui dormire, e lei mi rispose che quello era un posto per dei poveri; così le replicai: “Ma io sono povera!” E mi venne incontro Suor Antilla, una donna di mezza età di origine indiana dell’ordine di Madre Teresa di Calcutta, che mi invitò in maniera dimessa a seguirla, fino all’ingresso dell’edificio un po’ severo ed insieme spartano, dove mi attese un’altra suora ancora: la Madre Responsabile che mi accolse quest’ultima per poter ascoltare lei la mia storia, chiedendomi al termine se prendevo delle medicine.

Io le risposi di no, in quanto le avevo ormai interrotte da qualche settimana, pur continuando, per tutta la durata della mia sistemazione al convento, ad essere rimasta sotto l’effetto del diabolico HALDOL (una merda di medicina che il tuo corpo comincia a smaltire dal terzo mese in avanti di astinenza); ma solo dopo avermi avvisata che in questo posto era comunque difficile riposare bene, a causa di certe persone che avevano dei bambini piccoli, e di altre afflitte da dei problemi psichiatrici acconsentii a farmi rimanere presso di esse, nel rassicurarla a mia volta che per me non c’erano problemi a questo riguardo, poiché nei giorni precedenti avevo dormito persino al Pronto Soccorso di un ospedale. Mi fece quindi strada per la prima rampa di scala fino al refettorio del piano superiore nel quale fui presentata ad una terza suora a sua volta: Suor Maria Pia che per carattere mi ricordava mia nonna.

LA SUORA DELLA FOTO E’ APPUNTO MARIA PIA

Nonostante fossero ormai le 19.00 e la cena veniva servita alle 18.00, mi fu offerta ugualmente con le ospiti della struttura ancora sedute a tavola che stavano finendo di cenare e che mi osservarono con circospezione come quella nuova, arrivata da poco. Mi sedetti fra loro, salutandole cordialmente anche se con un po’ d’imbarazzo. Al tempo, ci contavamo in una decina fra straniere e italiane, ma ciò che emergeva più di ogni altra cosa di noi nel ritrovarci lì tutte insieme, é che fossimo state delle ragazze disperate: una pancabestia giovane di 25 anni di nome Lisa, dell’età all’incirca della zingara Polonicca, tre italiane, di cui una di qualche anno più di me con un nome che mi dimentico sempre, due invece di qualche anno in meno, Aurora e Antonella, e una mia coetanea: Anna, che per vicissitudini famigliari simili diventammo molto amiche; quattro rumene giovani: Cristina, Nicoletta, Floriana, l’anzianotta Dorotea e infine Valentina di qualche anno più vecchia di me. Successivamente arrivarono delle giovani ragazze di colore (soprattutto nigeriane e congolesi). Il pasto era frugale: una zuppa di verdure (patate, zucchine, talvolta con un osso di carne dentro o del riso oppure della pasta all’uovo), contorno di insalata e pomodori, più formaggio o affettato con del pane. Finita la cena Suor Maria Pia mi portò all’ultimo piano nella mia camera. Le camere erano degli stanzoni con cinque o sei letti come quelle delle colonie estive per i bambini; due camerate si trovavano sullo stesso piano del refettorio e della cucina dove c’era anche un salottino per leggere con una ciclet più un bagno con doccia. Le altre quattro – con altrettanti relativi bagni più box per lavarsi interamente – stavano invece al mio piano (due per le donne con dei figli) e nelle altre rimaste (di cui una chiusa per la stretta emergenza) dormii io e che condivisi per i primi giorni unicamente con una rumena di 46 anni che era stata violentata da un prete di Genova: Valentina, della quale ho accennato poc’anzi; in principio con ella simpatizzai particolarmente per l’esperienza comune dello stupro che mi sentivo di aver subito in un certo qual modo anch’io, ma non nel senso vero e proprio del termine, bensì in quello più strettamente figurato, legato al rapporto di violenza psichica da parte della mia famiglia, che mi aveva inflitto attraverso il trattamento psichiatrico sopracitato contro la mia volontà che nella società di oggi é di norma contemplato, quando invece costituisce una pura barbarie.

Se è vero che i nostri rapporti erano stati buoni inizialmente, in quanto fu lei per prima che nel raccontarmi la sua tragica videnda, m’incoraggiò perché io le parlassi della mia di storia, ragione per cui s’instaurò sin da subito una certa empatia, di Valentina non mi volli mai fidare completamente, essendo stata questa persona una donna dell’Est e quindi una persona appartenente ad una razza abbastanza scaltra con pochi scrupoli: e che é dunque, pronta a rifilartelo di dietro, non appena se ne presenta l’occasione, come non a caso accadde alla terza settimana, da deja vue di altre precedenti esperienze con dei “bislacchi”.

infatti, quando a 25 anni ero stata messa alla porta per la prima volta ingiustamente dalla famiglia, trovando alloggio da un prete in Strada Maggiore, ebbi modo di conoscere già da allora tale gente condividendo una stanza con due straniere: una delle due per l’appunto rumena di nome “Micaela” e un’altra eritrea molto più simpatica che si chiamava Nabia. Quella di colore con la quale ridevo e scherzavo durante il giorno, non mi faceva però dormire la notte russando incessantemente sino all’alba, che dopo aver trascorso un mese nell’insonnia, posteriormente alla fine ci litigai. La fin qui neutrale Micaela, che in sua assenza se ne lamentava sempre pure lei, mi girò all’ultimo momento le spalle allorché decidemmo di affrontare la questione “Nabia” una volta per tutte, soprattutto per la questione del bagno, lasciando ella ovunque i suoi capelli ricci. Forse questo suo improvviso cambio di rotta, era da imputare all’atteggiamento delle amiche connazionali che la venivano spesso a trovare nel nostro alloggio di circa una trentina di metri quadrati, chiacchierando queste solamente nella loro lingua madre da precludermene la conversazione ad avermela esse condizionata contro. Mi ricordavano le “comunelle” che si creavano in certi posti di lavoro come in campagna a raccogliere la frutta, o in fabbrica da parte di certe donne più anziane o colleghi uomini un po’ frustrati. Un’impostazione relazionale povera, basata solo sui punti in comune che isolavano sul nascere chi di diverso dal resto del gruppo anche se magari con un qualcosa in più, pur sembrando queste persone dell’est piuttosto amichevoli apparentemente. Ma avevo già avuto modo di osservare più approfonditamente questo tipo di popolazione anche a Cervia nel fare la stagione alberghiera in un hotel dal personale metà pugliese (io ero l’unica nostrana), e metà rumeno. In detta infrastruttura ricettiva, il personale di servizio rumeno, era diviso a sua volta in veri e propri cavalli da corsa – le ragazze che facevano le camere – , impiegatizio, e adepto alla sala o alla cucina, questi ultimi dei giovani uomini stronzini che se da una parte mi lusingavano per la mia avvenenza, dall’altra erano pronti a tutto pur di farmi puntualmente lo sgambetto. Un’impiegata rumena, in particolare, mi recriminava la mia bellezza con battute acri a sottenderne il suo indubbio impari quoziente intellettivo che la equiparasse, quasi fosse stata invidiosa di me … In genere non faccio di tutta l’erba un fascio, ma le varie situazioni del passato nelle quali mi sono ritrovata ad averci a che fare con questo tipo di popolazione, mi ha messo nella condizione di poterli snidare dalla loro infida natura già da un po’ ormai; quali sì dei gran lavoratori e di temperamento pressoché mite, ma alcuni di essi come dei veri e propri arrivisti con poche remore a pestarti pur di toglierti di mezzo, mentre tu al contrario ti disponi ad aiutarli affinché si inseriscano bene nel nostro paese.

Ecco perchè nel sentire parlare male di Cristina dalla mia compagna di stanza – una sua connazionale dal carattere dolcissimo che era soprattutto molto brava a parlare l’italiano, tanto che la pensai della mia terra – , non la volli sostenere a priori senza prima averla conosciuta anch’io, assecondando Valentina semplicemente che le sparlava dietro di continuo.

Oltre a Cristina, cercò di dipingermi come una brutta persona pure Lisa, la lesbica un po’ pancabestia, dalla quale Valentina si fece per giunta denunciare di seguito ad una lite furiosa che scoppiò fra le due, al pari di una prima precedente che aveva avuto anche con la rumena di cui ho appena parlato. Tuttavia furono però queste due ultime ragazze ad essere state costrette al termine ad andarsene via loro dalla struttura, non avendo riscosso dal resto delle ospiti del convento alcuna solidarietà, potendo contare invece Valentina dell’appoggio di un paio di donne dell’Est frustrate e senza troppi riguardi più di lei: a Dorothea di origine polacche le era morto un figlio, mentre Floriana della stessa nazione di Valentina aveva litigato col marito a cui lasciò il figlio perché non riusciva a ricongiungersi con lui. La comunella: Valentina, Floriana, e Dorothea era vincente, trascinando a sé tutte le altre ospitate più fragili e che per suddetta ragione, videro Cristina e Lisa, nonostante fossero quelle dalla parte della ragione nell’aver contestato a Valentina di inalberarsi eccessivamente per delle stupidaggini, a ritrovarsi alla fine loro a doversi allontanare da lì; per una sorta cioè di insofferenza ad un quieto vivere ormai definitivamente compromesso, visto il muro di ostilità che le amiche della “reggente” le costruirono intorno. Del resto quando in un gruppo di persone, non ci sono degli individui autonomi quali la sottoscritta che infatti, non mi ero lasciata influenzare da Valentina, il rischio di condizionamento dell’opinione comune altrui è sempre alto, ciò che appunto si verificò.

Floriana e Dorothea gettarono infine delle ombre pure su di me a questa mia amica di camerata, non so se per il fatto che mi vedessero più bella (da una mia impressione per via di una certa acredine da parte soprattutto della prima), oppure perché non piacessi semplicemente punto e basta, avendo io stessa alimentato dei preconcetti nel dire sin dal principio che ero reduce da un trattamento psichiatrico con la complicità della famiglia; a tal punto che un giorno in cui Valentina s’influenzò trascorrendo l’intero decorso della sua malattia diverse ore fuori in giardino che ancora era freschino e anche quello successivo pur di rimanere con le sue amiche del cuore, anziché riguardarsi come avevo fatto io nel raffreddarmi antecedentemente a lei, tanto che me ne rimasi non a caso per tutto il tempo al riparo in convento, alla notte russando ella rumorosamente da impedirmene il riposo, finimmo per litigare. Quando a Valentina dal mio letto gli recriminai questo fatto, cioè che non essendosi presa cura della sua salute, lo fece alla fine pesare su di me glielo apostrofai scherzosamente la mattina seguente alla nostraprima nottata in bianco, con un: “Eh, eh hai russato stanotte!!” con questa redarguirmi aspramente: “Non sono stata io!”, erano in effetti nel frattempo arrivate altre due ragazze di colore nella nostra stanza: Oswene e Joice; trovando però sia il suo tipo di risposta sia il suo atteggiamento nei miei confronti che era comunque cambiato, in quanto fino a quel momento da Valentina ero sempre stata trattata coi guanti. Quindi alla seconda notte, in modo più fermo ma pacato glielo riposi il problema più direttamente, con questa donna rumena che mi esplose come un vulcano in eruzione, che era il modo con cui parlava di Cristina e Lisa: una collera particolarmente accesa mista ad un furore inaudito per delle questioni, delle quali si poteva parlare con molta tranquillità.

Riuscii anche con me a farmi passare dalla parte del torto a tutte le altre, forse perché dopo tre settimane che ero in questo posto, dove si doveva rendere conto della propria vita privata ogni giorno, me ne cominciai al termine a sentire un po’ oppressa, iniziando a prendere le relative distanze; e proprio a causa di questa mia improvvisa fragilità emotiva, Valentina ottenne la meglio, ponendosi lei al contrario di me abbastanza cordiale e amica di tutte quante, costantemente: in un momento ovvero che io staccai la spina (gli prestai senza averli indietro dei soldi pur di tenermela buona, avendone già ravvisata la pasta), e in coincidenza della parata militare delle sue amiche dell’Est che furono loro per prime ad avermela aizzata contro. Io tacqui, quando Valentina mi mitraglierà ogni sua riserva: che mi svendevo per 10 euro, che ero una malata psichiatrica avendole per l’appunto confidato che venivo da un TSO, ecc., poiché era mezzanotte e nella camera accanto dormivano i bambini con le loro mamme. Fortunatamente però, se ne andò il giorno dopo a questa sua sfuriata nel riuscire ella a trovare un lavoro sempre grazie a me che le avevo fatto conoscere il link di internet: www.Bakeca.it, il cui portale non faceva però lavorare la sottoscritta medesima per quanto mi mettessi di frequente (…??); che fu poi questa in parte la vera ragione per cui si scagliò così contro la mia persona: la sua prolungata disoccupazione. Ad ogni modo mi bastò il fatto che Dorothea, la sua amica polacca, trovò un impiego anch’essa qualche giorno dopo di Valentina, a ripristinare quel minimo di equilibrio sociale in convento, che per colpa di queste due donne dell’Est, avevo temporaneamente perso; benché quella più ostile era in verità rimasta ancora lì, a fungermi da mina vagante continuamente: Floriana, un vera e propria acqua cheta! Ma avendola stanata e individuata nella sua dinamica relazionale per tempo, me ne presi le accorte distanze proseguendo a coltivare l’amicizia con quelle più miti.

Il mese successivo arrivarono altre donne, stavolta di colore. Queste persone sembravano mansuete pure loro, ma come in ogni cultura ce n’è sempre uno di individuo più tranquillo ed uno più prepotente. All’inizio emerge la cordialità e la compostezza in ciascuno di noi, poi una volta che se ne ha una visione d’insieme del gruppo metti in atto le tue strategie comportamentali: ciò che accadde anche con le nuove ospitate, per cui c’era Bisen qualcosa – una vent’enne nigeriana molto tranquilla -, ma la sua connazionale più alta dalla parrucca riccia e il sorriso accattivante – della quale non ricordo il nome con qualche anno più di lei – , in un secondo momento diede prova di tutta la sua arroganza: musica dal cellulare fino a tarda sera in camerata, e alle prime luci del mattino mentre si lavava i denti in bagno. Un giorno le dissi qualcosa col linguaggio del corpo portandomi il dito all’orologio che erano solo le 6.30 e molte ragazze dormivano ancora, con quest’ultima che mi tirò un braccio in aria. Le due ragazze di colore che stavano in camera con me, invece, erano a differenza di queste molto più diligenti, anche se una andava ripresa su tutto, soprattutto nella pulizia della sua persona e della stanza che condividevamo, pertanto si facevano i turni organizzati dalle suore. Ma da queste mie compagne di stanza di colore ottenni invece il pieno rispetto.

DIETRO IL CONVENTO CON UNA SUORA INTENTA A SVOLGERE DELLE FACCENDE
UNA SUORA DEL CONVENTO DELL’ORDINE DI MADRE TERESA DI CALCUTTA

Documento della mia permanenza al convento del Terrapieno

QUESTO SOPRA E’ UN DISEGNO CHE MI HA FATTO UNO DEGLI OSPITI CHE ERA DENTRO CON ME NELLA CLINICA PSICHIATRICA DI SAN GIOVANNI IN PERSICETO DOPO AVERGLI RACCONTATO LA MIA STORIA; E IL QUALE ERA LAUREATO, INSIEME AD UN ALTRO (ERAVAMO IN UNA DECINA), MA IL SUO NON ERA UN RICOVERO COATTO, COME QUELLO ANCHE DI ALTRI. IL TRATTO DEL DISEGNO APPARE QUELLO DI UN BAMBINO, PER VIA DEI FARMACI CHE CI DAVANO. PER CUI ANCH’IO PER MOLTI MESI SCRIVEVO DI MERDA PER VIA DELLA CONTRATTUA NERVOSA.

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