ESAME DEL SANGUE PER RISCONTRO DELL’ARMA MISTERIOSA DEL MONGOLO

Era una bellissima giornata di sole, che però non mi irradiava dentro di alcun tepore emotivo, visto il disagio fisico che percepivo in corpo; pertanto mi feci ancora più caparbia in questa mia missione di volerci andare a fondo sulla “merda” che mi lasciava addosso il famoso mongolo (vedi cap. 35), allorquando mi sferrava la sua arma misteriosa. In verità, quel giorno volli andare in città anche per scappare dalla  nuova dura realtà almeno per qualche ora, così da sottrarre agli occhi di mia madre il tormento che provavo, non trovandosi più tanto ella nelle condizioni mentali per poter sorreggere il peso della propria pena quotidiana per me, su ciò che mi stavano facendo “le Istituzioni”; sebbene di tutto questo, la stessa mamma, avesse sempre riso di me, apparentemente, come del resto gli altri parenti, che al contrario dal fingere di lei, per tal suddetta mia disgrazia erano stati invece tutti quanti ben contenti. Arrivata a destinazione, quindi, lasciai che la luce brillante a riverberarsi ovunque su Bologna e l’aria frizzantina dell’autunno in corso, mi conducessero dolcemente verso una qualche strada qualsiasi. E fu in quel girovagare senza meta che passai davanti al nuovo Pronto Soccorso dell’unità ospedaliera del Sant’Orsola, dove vi sostai davanti due secondi, al fine di cercare di capire se davvero volevo approfittare una volta per tutte di quell’occasione per fare un’indagine più approfondita degli effetti eventualmente riscontrabili sul mio organismo dell’espediente diabolico che mi veniva lanciato contro, benché non ne fossi mai stata tanto convinta a priore di tale mossa, sapendo già che sarebbe stato perfettamente inutile. Tuttavia nell’ascoltare la mia afflizione psicologica, all’immane tragedia che subivo da ormai troppo tempo (da circa tre anni), avevo ben chiaro che se diversamente avessi optato per andare a passeggiare in giro nelle vie del centro, nessun cibo, nessun paesaggio magnificente, nessun “cazzeggiamento” vario per le arterie del tessuto urbano che mi  potessero attendere, come quando al tempo in cui non subivo ancora questa particolare molestia avevo potuto godere di tutto ciò, pur continuando a venir però importunata in diversi altri modi, mi avrebbero mai destituito del mio benessere psicofisico che anche per quel giorno, era stato ormai compromesso. Pertanto, per non convivere con lo scrupolo di non aver scandagliato ogni mio tentativo di salvezza esistente, allo scopo di potermene difendere dal suddetto martirio (ero stata anche al Dipartimento Universitario di Fisica a Bologna prima dell’estate appena trascorsa, per provare in ultimo di chiedere a un docente se ne conoscesse la natura di detta arma, senza venire “cagata“, alcunché), mi trascinai a viva forza al suo interno, presagendo sin dall’inizio del tempo e delle risorse emotive che avrei disperso inutilmente, benché doveroso come altro passaggio a livello giurisdizionale, pure questo. Entrata nell’hall luminosissima e dal bianco candore del colore dei suoi interni, quasi mi fossi trovata nel purgatorio anche per via del perimetro della stessa che era molto estesa come dimensione tanto da sembrare una palestra, vidi che conteneva un giusto numero di persone e ben dispiegate coerentemente tra quelle sedute e quelle in piedi da lasciare molto spazio a ciascun paziente del pubblico in sala, forse, una dozzina in tutto; il quale fatto, nonché il medesimo asettico ambiente a parlare della pulizia in esso, mi incoraggiarono infine per sostarvi definitivamente. Dunque, attesi al punto di primo ascolto per prenotarmi; e una volta giunto il mio turno, chiesi all’infermiera che mi accolse se potevo fare un esame del sangue dovuto ad un mio sospetto di tossicità da “qualcosa” di non identificato, cercando di parlarle con tutta la delicatezza e la compostezza del caso, di quale fosse stato esattamente il mio problema, onde evitare che mi si desse della pazza sul nascere, ma soprattutto per una forma di rispetto del personale addetto che mi doveva assistere, affinché gli operatori da me interpellati non si sentissero presi in giro dalla sottoscritta. Perciò, le spiegai che c’era qualcuno che da lontano mi lanciava addosso uno strano proiettile di cui non ne conoscevo la natura, e che in seguito dall’essermene sentita colpita da questo, inibiva la mia naturale respirazione diaframmatica, precludendo il mio rilassamento fisico, fino a che non mi andavo a lavare completamente. L’operatrice infermieristica che mi ascoltò mi rispose “grazie a Dio” con gentilezza ed estrema professionalità, pregandomi di attendere qualche istante; poi mi richiamò  dopo cinque minuti dall’unità interna di quello stesso sportello per farmi misurare il cuore, la pressione sanguigna e la sua saturazione di ossigeno, che trovarono al 90/100 tanto che questa persona mi disse: “meglio di così…”! Ma dinanzi ad una mia insistenza di voler procedere ad un vero e proprio esame ematico, cedette al termine, dandomi il codice bianco e avvertendomi che ci sarebbe stato però da attendere un bel po’. Erano le 11.53 allorché vi sopraggiunsi, e le 2.15 del mattino, l’ora esatta in cui l’internista mi ebbe finalmente a visitare, mentre le 3.00 all’incirca che da quel posto me ne uscì definitivamente.

 

Foto che mi feci fare da un ragazzo che passava lì per caso, insieme ad un altro paio, con il suo cellulare, e a cui chiesi di mandarmele al mio indirizzo di posta elettronica. Ma giusto il tempo, che la mafia, lo ebbe a contattare per truccarmele, come si evince da questa immagine, che anche il resto del materiale fotografico che mi inviò, vidi che era ormai stato compromesso per poterle io qui allegare. Le foto antecedentemente al loro declassamento, le scorsi, e vi assicuro che erano invece belle e ben definite. A questo ragazzo, glielo contestai il tutto, con lui che si dimostrò molto spregevole nei miei confronti in seguito a questo fatto, come succede ogni volta che la madama ci mette il becco tra le mie relazioni interpersonali, quando al contrario prima di ciò, egli si era dimostrato molto gentile ed educato.

Area esterna del comprensorio ospedaliero “Sant’Orsola”

 Di conseguenza ciò che è riportato sul foglio della certificazione in Pronto Soccorso di quel giorno, reca un orario di visita non esatto, venendone indicato come ora di visita l’1.20: e già questo fatto è di per sé strano!

REFERTATA ALLE 01.20 (…??), SE MAGARI, SARANNO STATE OLTRE LE 14!

 

Durante la biblica attesa feci amicizia con diverse persone, all’infuori di una coppietta un po’ fighetta di stranieri, forse di etnia dell’America centro-meridionale, che mi sembrava fin troppo schiva, e anche di un’altra dell’Africa bianca che paradossalmente al proprio status sociale, quello ovvero di individui extracomunitari nel nostro Paese, parevano esageratamente in forma, avendo questi un atteggiamento un po’ troppo “streappato” da bullismo, verso ogni cosa e persona di cui li sentivo parlare con la coppia sopra, la sola, con la quale avevano instaurato un rapporto di reciproco affiatamento. Nel chiacchierare successivamente con un ragazzo della mia età, forse di qualche anno più giovane, e che sembrava un po’ “sfigato”, ma che in verità era una persona semplicemente molto sbattuta dagli eventi tragici della sua esistenza, avendo lui avuto degli incidenti di percorso, egli mi rivelerà non a caso che trovandosi frequentemente per strada, in quanto senza una fissa dimora, li aveva potuti riconoscere i due giovani vent’enni africani quali degli spacciatori; che doveva essere, questa, la spiegazione più attendibile, a giustificazione della loro spavalderia a tutti noi ed insieme il loro vestir bene, data la provenienza di essi; questo individuo che pure io inizialmente tenni in qualche maniera a distanza nel sembrarmi alquanto strano, non mi nascose ad ogni modo per molto a lungo la sua vera natura: come quella cioè di una persona autentica e gentile, allorché mi ci ritrovai poi a parlarle, e che per tale ragione volli riscattare agli occhi dei presenti che fino a quel momento non gli avevano prestato una gran attenzione; tutto questo per mezzo del mio carisma che senza le mie mafie (di quella della mia famiglia e poi dell’altra che ho conosciuto a Bologna grazie alla prima, ed infine di quella di new entry “sociale” che la seconda mi condiziona attraverso la corruzione di singole persone) emerge smisuratamente. Non ero certamente ben vestita quel giorno, come solitamente mi facevo vedere in giro per Bologna, essendo rimasta con indosso i vestiti che portavo in genere a casa mia a Molinella (e pure questo fatto non è certo un caso, visto le ritorsioni che subisco anche qui da quando sono ritornata a vivere nel mio luogo natale, dove sono stati appunto corrotti alla fine molti dei miei stessi compaesani, non meritandoselo cioè affatto costoro la mia grazia e la mia avvenenza, che proprio per questa stessa ragione, sento essi maggiormente come dei traditori, molto più degli stessi forestieri o degli sconosciuti della città che mi vengono corrotti di volta in volta e che quest’ultimi almeno non mi hanno mai conosciuta e vista crescere) e che non esaltavano certamente la mia femminilità, stile “badante” & “zia”; ciò nonostante, percepivo ugualmente di venire osservata con interesse da molte delle persone che erano lì, perciò decisi di premiarla questa persona così particolare, poiché vi leggevo qualcosa  dalla polvere che aveva egli indosso… Era infatti, un giovane uomo, di buon cuore che credo avesse avuto un figlio da una relazione, ma che non poteva mantenere perché non avendo trovato lavoro in tempo utile, i servizi sociali glielo avevano nel frattempo allontanato da lui; penso anche per il fatto che fosse incorso in una dipendenza da alcol o di una qualche droga. Sapeva di aver sbagliato e stava cercando di rimettersi in carreggiata, ma visti i tempi storici in cui viviamo tutti quanti, ovvero di disoccupazione incipiente e degrado collettivo nello stesso tempo, lo “Stato” non gliene dava l’opportunità, come succede invece per tanti altri; ragione per cui un giorno mi raccontò che dovette salire persino su una gru pur di venire ascoltato dalle Istituzioni: il quale episodio andò pure sul giornale e che ricordo vagamente di aver letto. Gliela dissi, questa cosa: cioè che mi sembrava di averlo appunto scorso l’articolo in questione; e in quel suo sfogo contenuto aggiunse anche, che la sorella del ragazzo famoso di Ferrara che era stato massacrato da degli agenti di Polizia, uccidendolo al termine, essendo stato lui con questa in contatto da diverso tempo, nel venirlo lei a sapere al termine dalla sua viva voce, del episodio di quel suo gesto estremo, chiese agli Organi competenti, perché non lo avesse “cagato” nessuno chi di dovere; dal momento che, tale persona, a differenza di egli era stata alla fine, lusingata dalle medesime Istituzioni. La quale, infatti, aveva ottenuto dagli Organi di Stampa di venire ascoltata, dopo tante peripezie giurisdizionali, più che altro per via del clamore mediatico riscosso dal caso del fratello, per per natura dello stesso caso erano di tipo propagandistica; di conseguenza ne fu fatto addirittura un film al Cinema. A questo punto, incalzerò che avrei voluto conoscerla anch’io per dirle che pure suo fratello era stato, in realtà, appunto una vittima di mafia di Romano Prodi, e che, dunque, non si era trattato di semplice malagiustizia; per poi una volta, di seguito all’avergli rivelato questo fatto, arrivare a sentire l’esigenza impellente di raccontargli in breve la mia storia che avevo scritto su un sito a riprova di quella mia teoria. Con sorpresa, scoprì che lo conosceva (anche se aveva visto quello vecchio: www.sognandoamanda.com), dichiarandosi un mio fans, e facendomi successivamente un complimento un po’ “burino” del tipo: “che ero così carina nonostante l’età, che mi avrebbe a tutt’oggi scopata”! Ma nell’avergli tuttavia dovuto rivelare che avevo dunque la mafia, lo vidi al suo pari che si inquietò contemporaneamente un poco, seppur in modo ben composto; appena giusto in tempo che realizzò la cosa, che fosse quindi meglio starmi alla larga, venne chiamato magicamente dentro, per almeno potersi sottrarre da me, vista la mia affiliazione ad un girone dell’inferno più in basso del suo, nonostante la mia falsa apparenza che stessi messa meglio di lui. Parallelamente ad aver fatto amicizia con egli, comunque strinsi rapporti anche con altre persone dalla vita normale, che pure loro si domandavano come mai si dovesse attendere così tanto per farsi visitare. Addirittura proprio per questa ragione ne nacque in tempo reale una sorta di community: non eri più il nome, l’origine di provenienza, né l’età, né tanto meno la ragione sociale, bensì l’ora in cui si era entrati, il codice che ci era stato assegnato ad ognuno, e il suo relativo rapporto rispetto a questo: “tu quando sei entrato?”, e di seguito: “Ah io sono qui dalle 9.00 del mattino”, perciò se eri entrato due ore dopo ad uno, sapevi che avresti dovuto aspettare prima il paziente delle 9.00 che venisse chiamato, e quando finalmente qualcuno se ne usciva da quel tunnel temporale senza fine, come quasi stato tratto in salvo e scampato da un inatteso destino, ci si salutava felici per questo comune compagno di ventura, e a ricordo di quella tragica esperienza, allucinante, da dimenticare ad ogni costo, ci si faceva l’un l’altro gli auguri di una buona, pronta rimessa in forma: poiché almeno “lui” ce l’aveva fatta. Allo stesso modo non fu però per una coppia di anziani, dove la moglie teneva la guardia alla carrozzina del marito, affetto dal Parkison, tanto che questi coniugi alla fine sfiniti entrambi dall’attesa interminabile, si trovarono costretti a doversene andare, ed io mi strinsi ad essi con caldo affetto, per comunicare loro tutto il mio calore umano e la mia desolazione per quella situazione assurda che non avevo mai conosciuta prima di allora, avendone spesso usufruito dell’ambiente di Pronto Soccorso del Maggiore per svernare la notte dal freddo, quando non avevo avuto dei clienti che mi avevano pagato un tetto, al tempo in cui ero ancora senza un alloggio. E la stessa cosa, accadde al fratello di una paziente che aveva un cancro al cervello; il quale parente napoletano, annunciò che li avrebbe denunciati, dicendo al personale infermieristico: “mia sorella non ha un semplice mal di testa, ma un tumore!”, lasciandoli atterriti da quella minaccia e disgrazia.

 

Sì, Sì creiamo apposta il pretesto per volgere al servizio sanitario a pagamento, inibendo totalmente dal far lavorare la gente con la scusa che non ci sono soldi, quando ce ne sono eccome, anche se vanno tutti in tasca al potente, e già che ci siamo rendiamo la cosa piacevole!

RECENSIONI NEGATIVE SU INTERNET DEL NUOVO PRONTO SOCCORSO MALPIGHI