RUBIERA

Mi convinsi di queste difficoltà, come una sfida per ottenere l’adesione di Dio e solo in quel moto dell’animo, andai a vivere da Giuseppe, tra le campagne modenese e reggiane che non conoscevo affatto. Fu una piacevole sorpresa scoprirmi felice laggiù, poiché Beppe aveva un dolcissimo bastardino che portavo spesso a passeggio tra i campi di frumento e altre colture che stagliavano ovunque all’orizzonte, e che solo attraverso una pista pedonale e ciclabile di circa tre kilometri collegata a Rubiera – la sua villa si trovava in una frazioncina di quel comune – li potevi attraversare (le foto nel sito dove sono sopra ad un pozzo, sono del suo giardino di casa); era proprio ciò di cui avevo bisogno in quel periodo, avendoli appunto trascorsi gli ultimi due anni e mezzo in città, tra il suo inquinamento dell’aria e acustico.

Inoltre questo signore sin dal principio in cui fui sua ospite, non mi sfiorò neanche con un dito come sperasse che fossi io a dargli questo permesso e che non ottenne mai, anche se cercavo lo stesso di essergli riconoscente e carina in un altro modo. Addirittura avevo la piscina comunale poco fuori il paese che con la bici olandese di lui, raggiungevo in dieci minuti da casa se solo avessi voluto andarci. Non riuscivo a credere a quanto avevo ottenuto, nonostante mi ci fossi trovata obbligata al tutto: dal poter fare uso dei suoi due computer, di cui uno portatile, sino alla possibilità di usufruire di una doccia/sauna cromoterapica e di una stanza tutta mia col secondo bagno.

Mi ritrovai, quindi, al quinto giorno dal mio arrivo qui, a scrivere sulla mia chiavetta USB della gioia di quella strada intrapresa, mio malgrado, che si era però rivelata alla fine un allegro sentiero; quando all’indomani di quella pagina di diario un po’ azzardata, in quanto sapevo delle incursioni del mafioso nella mia privacy per far franare ogni mio sogno, ecco la svolta tragica.

Bebbe la mattina del sesto giorno bussò alla porta della mia cameretta dove ancora stavo dormendo, chiedendomi dal di fuori di aprirgli urgentemente per poterlo io raggiungere al piano terra. Da sotto le coperte del letto, gli chiesi un po’ assonnata la ragione di questo; ed egli mi riporse, nuovamente, lo stesso invito ma stavolta con un po’ tono sinistro ed insieme tradendo un certo nervosismo, senza però mai rispondermi. Avvertì pertanto che qualcosa non andava, così mi preparai al peggio infilandomi le ciabatte ai piedi e gli aprì incuriosita anche per scrutare la sua faccia: aveva un ghigno divertito misto ad un self – control di circostanza; ma ancora non riuscivo ad immaginare cosa potesse essere successo, anche se già immaginavo che qualsiasi brutta sorpresa mi attendesse, l’avrei dovuta tributare al mafioso. Scendemmo entrambi mesti le scale, come se fosse stato rinvenuto un cadavere e una volta sopraggiunti in salone, vidi le prime tracce di un’incursione vandalica: qualche sportello aperto della credenza con dei cocci a terra di piatti, un cuscino del divano ed un plaid sul pavimento con dell’altra roba gettata qua e là, fino a seguire in cucina, dove c’erano degli altri cassetti aperti con l’olio, lo zucchero e i succhi rovesciati sui ripiani della medesima; una scarpa da ginnastica buttata da qualche parte e una seggiola del soggiorno fuori posto, mentre il coperchio del WC era stato scoperchiato e portato via, per cui più tardi dovemmo andare in un magazzino a comprarne uno nuovo.

Avevo ben chiaro oramai che trattandosi di una semplice molestia fine a sé stessa, in quanto nulla di valore (televisore, impianto HIFI, ecc.), era stato portato via e neppure la serratura era stata scardinata, il tutto potesse essere riconducibile al mio solo stalker; a Beppe avevo già accennato di quest’uomo che m’importunava in mille modi da circa dieci anni, ma dallo stesso non ero stata probabilmente creduta. Adesso, forse, si stava rendendo conto che avevo parlato sul serio, e anche se fino all’ultimo si era negato quell’evidenza imputandolo ad altro, ora aveva paura. Così nel tentativo di scrollarsi dalla testa l’idea che un pazzo di quella natura, gli era entrato in casa sua, iniziò a riassettare a destra e a manca a quel caos e a quel disordine in generale; poi mi cominciò a pizzicare per infine farmi litigare con lui, come presumevo potessa accadere, finché dallo stesso venni esortata al termine ad andarmene via da lì quanto prima, già che c’ero…

Sapevo che una pagina di diario era stato un atto incauto, ma sono un essere vivente pure io che prima di tutti quanti voi a cui racconto la mia storia senza ottenere di venire creduta, desidero prima di ogni altra cosa io per prima che si tratti di un’ombra della mia mente. Pertanto, leggera, leggera come una nuvola, avevo sperato in quell’idillio in cui mi ritrovai laggiù, dove tutto sembrava essere di nuovo possibile e, dunque, abbassai lo stato di guardia. Non ce l’avevo dunque con Beppe che ragionevolmente voleva che io me ne andassi, e neanche col mafioso al quale avevo reso semplice quello scacco matto, per mezzo della mia ingenuità, ma unicamente con me stessa.

Infatti, potevo evitare di lasciarmi andare a quella gioia consistente in una intima confidenza, ancora per un po’, sapendo di avere i giorni contati poiché ogni paradiso che sfioro, subito dopo mi viene trasformato in un calvario. Eppure volli lo stesso viverlo quell’incanto; nonostante l’ennesimo sconcerto, caddi su due piedi ben saldi, essendo stata già abituata da precedenti disillusioni e come un soldato mi rimisi in marcia verso nuove direzioni, dal cui capolinea di quel viaggio il cagnolino di Beppe mi accompagnò sguinzagliato fino alla stazione verso un altro come per volermi salutare e augurare buona fortuna, pur non conoscendo io a priori le cui destinazioni.