PREMESSA ALL’ENNESIMA FUGA DA CASA

Nel maggio del 2013, di seguito a quanto mi accadde a febbraio dello stesso anno, in cui ero stata internata per una trentina di giorni presso la clinica psichiatrica di “Villa Baruzziana” con un TSO, per via di una trappola costituita delle puzze premeditate che dei nuovi inquilini stranieri di origine pakistana, durante l’estate del 2012, mi fecero trovare di ritorno a casa dalla mia famiglia a Molinella nello stabile di via Cesare Battisti, 46, poco dopo dall’essermi io qui sistemata ad aprile, allorquando vi vennero appunto ad abitare loro per la prima volta (vedi cap. Capitolo 3: LA MIA MAFIA CHE ABBRACCIA QUELLA FAMIGLIARE), e che la mafia mi progettò come altra molestia perché al termine “sbroccassi”, avevo rimesso su per l’ennesima volta cinque chiletti a causa degli psicofarmaci che mi fecero assunsero forzosamente lì. Ma non appena sopraggiunse la primavera e quindi la bella stagione, riuscì a perderne due assestandomi a 55 kg: i quali, per la mia altezza sono comunque troppi, visto che sono alta 1.54 cm., anche se non sembro tanto bassa poiché sono ben proporzionata. Quando in quel periodo, mi successe un’altra disgrazia ancora, che nella mia vita famigliare coincide puntualmente con una qualche festa: quella stavolta del giorno del mio compleanno che ricorre il 19 maggio.

Qualche giorno prima in vista di quell’evento, avevo espressamente detto alla mamma di non comprare alcuna prelibatezza culinaria per festeggiarmi, come appunto una torta e dei pasticcini, in quanto la dieta che avevo da poco iniziato, stava cominciando a dare i suoi frutti. Ella mi rispose asserendo col capo, anche se un po’ distrattamente, come fa ogni volta che vuole fare a suo modo. Accadde così che arrivata la ricorrenza del mio trentanovesimo anno di età, di ritorno da una bella passeggiata in mezzo alla campagna, per la mia remise-en-forme, verso l’ora di pranzo

non la trovai stranamente in abitazione, come era solita fare soprattutto negli ultimi tempi, in cui rimaneva sempre di più in casa. Ma non ci feci tanto caso, senonché ad un certo punto sentì girare la toppa della porta d’ingresso che si aprì e si richiuse dietro alle sue spalle nel rientrare lei da fuori, da dove la vidi salire su per le scale con due cabaret belli impacchettati in mano di una qualche pasticceria.

Sentì il sangue ribollirmi in corpo, perché in quella splendida giornata di sole mi stavo cominciando finalmente a rimettere in forma, dopo diversi precedenti tentativi falliti, oltre alla questione che glielo avevo precisamente richiesto di non sottopormi a delle inutili torture psicologiche, dato che era stata la stessa famiglia a farsi incetta di quell’ultimo trattamento psichiatrico, mettendomi così nella condizione di ingrassare nuovamente per l’ennesima volta. Come non meno fastidiosa, fu per me la cosa, che ogni volta che le chiedevo una cortesia, la mamma non mi ascoltava proprio mai, per cui esasperata dal tutto, gli buttai nell’immondizia il suo bel gesto autistico a questo stesso titolo: “Adesso mi hai sentita??”. Poiché quello era l’unico modo perché lei capisse!

Mia madre, dunque, telefonò a mio padre in officina – il quale, di questo episodio in sé per sè, non si interessava in alcun modo, salvo poterlo esso impugnare per dimostrarmi che secondo lui, io avrei avuto bisogno di continuare a farmi curare, visto che mi ero slacciata dai servizi di igiene mentale come faccio sempre, una volta uscita da quell’ospedale infernale, e tutto ciò contro la sua volontà – , mentre la mamma lo contattò unicamente con il pretesto di avere l’attenzione del marito verso di lei, per mezzo di me, che ero il suo agnello da sacrificare, in quanto il babbo aveva una relazione extraconiugale con un’altra donna, da quando io nacqui, e la mamma non se ne era ancora data pace. Di conseguenza, egli chiamò a mia insaputa gli operatori dell’U.s.l di Igiene Mentale, per informali di questo mio “bizzarro” comportamento, fingendo una falsa premura per il mio stato di salute mentale, che secondo il mio papà era stato esagerato. I quali mi contattarono al telefono, per chiedermi se andava tutto bene. Mi allarmai non poco, di ciò, sapendo che costoro non aspettavano altro che avessi qualche altra conflittualità famigliare per potermi rimettere il loro collare addosso, avendo sospeso quasi subito l’assunzione delle medecine, di seguito al mio rientro a casa dalla clinica psichiatrica, e che essi volevano che prendessi a tutti i costi per sempre, invitandomi a presentarmi ciclicamente nel centro di salute mentale di Budrio. Queste, infatti, non solo mi davano fastidio, nel darmi delle continue contratture spastiche alla mia muscolatura, e una sensazione di indurimento nervoso in generale ad accompagnarle, oltre ad impedirmi di stare rilassata, cercando quindi la sottoscritta medesima di muoversi di frequente, allo scopo di poterla sciogliere quella strana rigidità… Ma facevano pure ingrassare, anche se tutti gli psichiatri ti dicono che è una tua idea. Falso!

Perciò, questi operatori, successivamente dall’essersi fatti sentire a me, in due o tre battute, in modo amichevole per così dire, al fine di ricondurmi al C.S.M “con le buone”, e dove puntualmente la mia persona lo declinava con sprezzo codesto invito, avvalando le mie ragioni per mezzo di alcuni fax che inviavo ad essi, tra cui quello di una denuncia che feci ai Carabinieri di quello che mi capitò a “Villa Baruzziana” (come ad esempio un furto ai miei effetti personali, e un trattamento di legamento dei miei arti con delle cinghie di pelle, ad una branda, da parte degli infermieri per siringarmi contro la mia volontà, solo per il fatto che avevo otturato senza farlo apposta un gabinetto della mia camera, nel buttarci giù molta carta igienica), passarono alle cattive maniere.

Un dì, che come di consueto andavo a camminare per le stradine di campagna del mio paese, per rimettermi in forma, mi chiamò sul cellulare la mamma che mi disse che un vigile della Municipale voleva parlare con me. Pertanto me lo passò dal suo telefono, per chiedermi costui dove mi trovassi, perché lì con lui c’era la psichiatra di Budrio che mi era venuta a trovare a casa. Io gli dissi che stavo facendo ginnastica e che avrei voluto essere lasciata stare, ma questi insistette perché io tornassi al mio domicilio, in quanto non si poteva fare altrimenti. Fui costretta a dire dove mi trovassi per accelerare i tempi, e dopo venti minuti la pattuglia della Municipale attraversò la via Viola, che collega Molinella a Guarda e che avevo percorso fino in quel momento lungo i suoi tre chilometri, per potermi questo vigile insieme ad un collega riportarmi nella mia dimora, dove mi attendeva la sopracitata responsabile dell’U.s.l di igiene Mentale.

Una volta in auto chiesi, cosa stesse succedendo in quanto tutto questo mi sembrava assurdo non avendo fatto un bel niente. Ma questo vigile, di nome “Pasini” e che in seguito la mafia mi corruppe per mettermi a segno altre ritorsioni psichiatriche,  mi disse che lui stava facendo solo il suo lavoro, e che avrei dovuto assecondare la cosa, che pure per egli era totalmente assurda. Diversamente non me la sarei scrollata di dosso la tal “pazza”. Domandai con inquietudine se mi voleva fare una puntura, perché la mia persona non accettava lontanamente di sottoporsi ad altre sevizie psichiatriche, facendomi queste ingrassare, poiché spiegai loro che mi trovavo in campagna, proprio per poter contrastare quell’aumento di peso corporeo che le stesse medicine mi avevano procurato. L’altro vigile che lo accompagnò il primo, mi disse che anche lui era stato costretto a farsi fare ciclicamente quella puntura, per dei suoi problemi personali e che anche ad egli “giravano i c.” però come Ufficiale dell’Ordine, doveva farla, se non voleva perdere il lavoro. E che ebbene, sì, faceva ingrassare, questo famoso “DEPOT”, ma diversamente…

Giunta nella mia dimora, in salone era già accomodata su una sedia la Dott.ssa Francesca Guzzetta, che mi cominciò a parlare in un modo a mio avviso piuttosto distorto rispetto alla questione che non avevo fatto assolutamente niente di particolare, perché lei si sentisse autorizzata a quella violenza psicologica nei miei confronti, fingendo di parlarmi con apprensione ed insieme mitezza nel vedere sulle carte che io ero stata considerata, seppur in maniera mendace, come una bordeline; ed ella sapeva di poter avere un’autorità a questo riguardo che le permetteva di violare ogni etica professionale, nel dichiarare il falso, in modo del tutto indisturbato e perfettamente legale.

Fui costretta a spiegarle, che dietro l’ultimo ricovero psichiatrico che avevo subìto senza una vera ragione, c’era stata appunto la mafia: visto che mi avevano estorto alla voce, sulle motivazioni del mio internamento, la questione della temperatura dell’olio di girasole che da ambiente fecero passare a “bollente”, e ad averlo io questo gettato sulla vetrata anteriore di una macchina dei pakistani perché mi “immerdavano” il vano condominiale della mia ex abitazione, nel chiudermi contemporaneamente un’altra famiglia di napoletani che vennero ad abitarvi qui dopo i primi, in sinergia alle molestie degli stranieri, il portone d’ingresso che tentavo di tenere aperto, affinché il miasma da essi prodotto si disperdesse; come la stessa cosa, la feci, sulle lenzuola stese fuori dei napoletani subito sotto al nostro balcone, che assieme agli altri condomini, me lo chiudevano appunto di proposito, in piena complicità, nell’essere stati corrotti infatti pure questi altri; la cui motivazione della temperatura dell’olio, altamente pericolosa, asservì alla “madama” per poter avere l’autorizzazione necessaria del mio internamento psichiatrico, per mezzo degli assistenti infermieristici corrotti dell’U.s.l di igiene mentale di Budrio, che me l’avevano apposta in un certificato, a riprova della loro nefandezza, e che in seguito mi venne poi fatto sparire dal mio faldone di documenti, in quanto la mafia sapeva che l’avrei voluto impugnare legalmente. E dunque, le dissi che avevo molti atti da farle vedere a proposito del fatto, che quel ricovero era stato un vero e proprio sequestro di persona, messomi a segno, come ritorsione mafiosa con il coinvolgimento delle stesse Istituzioni locali.

Ella mi rispose, che ci avrebbe dato un’occhiata solo una volta dopo che mi fossi fatta la puntura famosa. Quindi, feci resistenza dicendo che non ne aveva alcun diritto, che quella era la mia casa, e che se ne doveva andare perché non era la ben venuta, con il vigile che mi prese da parte nel tentativo di sedare il mio animo e piegarmi ad ella per la buona pace di tutti.

Fino a quando dalla stessa arrivarono le minacce, vere e proprie, nel vedere la mia risolutezza a non volermela fare, per cui avrebbe dovuto chiamare lì, un suo collega psichiatra come rinforzo, che dopo dieci minuti quest’altro la raggiunse, qui; costui che era un uomo di una certa età,  con pochi capelli di colore brizzolato e un paio di occhiali da “stronzo” sul naso, armato di disappunto serioso ed insieme omertoso in merito al mio comportamento recidivo, quasi fossi stata una “ragazzaccia” che andava frenata, mi disse che sarebbero stati costretti a chiamare un’ambulanza per portarmi in ospedale. Così, per scongiurare un potenziale rilegamento ulteriore della mia persona all’interno di una struttura, mi dovetti arrendere e calandomi le braghe volsi loro il mio culo nudo perché, al termine, me la si facesse la benedetta “merda”.

Da quella volta, dovetti intensificare la mia attività fisica e nutrirmi come un “gardellino”, perché già sapevo che ogni caloria che mettevo dentro al mio organismo attraverso il cibo, non sarebbe stata più metabolizzata naturalmente come quando non avevo in corpo, il DEPOT. E ciò, fu per un intero mese di copertura, prima cioè di un’altra puntura di quella droga del cavolo che mi avrebbe attesa trenta giorni dopo. Difatti, non perdendo più  neanche un etto, poiché il mio metabolismo basale si era arrestato improvvisamente di seguito ad essa, grazie alla messa in opera di un’attività fisica massacrante (al mattino andavo in bicicletta per Sant’Antonio, fino a Fiorentina e tornando per Selva Malvezzi arrivavo a Molinella in due ore, mentre il pomeriggio percorrevo la ormai citata via Viola a piedi per altre tre), insieme al ridurre notevolmente la quantità di cibo che prima avrei potuto mangiare tranquillamente dimagrendo pure, riuscì almeno miracolosamente a non rendere vani quei due chiletti che antecedentemente a quest’ultimo episodio ero riuscita fin lì a perdere.

E fu così, che sul finire di giugno in cui mi interpellai in merito al da farsi sull’imminente, per non ritrovarmi di nuove alla prese con i servizi di salute mentale, decisi di darmela nuovamente a gambe levate dal mio paese.

RICHIESTA DI DEGENZA OSPEDALIERA DA PARTE DI UNA PSICHIATRA CON UNA MOTIVAZIONE FALSA AL FINE DI GIUSTIFICARLA: LA MIA PSEUDO AGGRESSIVITA’. INFATTI, SONO LORO CHE INFIERISCO SU DI TE SENZA RAGIONE ILLEGALMENTE, ASSERENDO IL SUO ESATTO CONTRARIO.

Quindi, mi decisi di ridarmi alla fuga nuovamente, poiché sapevo, che gli operatori dell’U.s.l di Igiene Mentale di Budrio, si sarebbero fatti risentire per la nuova puntura, che a loro dire, si deve fare a cadenza mensile. Pertanto, presi armi e bagagli, e mi rimisi su un treno verso Bologna, dopo avermi fatto dare cento euro da mia madre, o non mi ricordo se gliele avessi rubate, in torto a quello che mi era successo per colpa della sua pazzia. Feci qualche cliente per poter avere un albergo in cui svernare in quei giorni, e non appena finirono i soldi, trovai una persona attraverso i servizi sociali, che mi diede un lavoro a casa di una ragazza della mia età in coma. Avrei dovuto farle da assistente, ma il lavoro era difficile: c’era da sapere alcune cose infermieristiche per niente semplici: come l’alimentazione attraverso il sondino, l’imbragamento di “Barbara” per metterla dal letto, sulla carozzina, ecc. Ma la mafia, come al solito, mi faceva trovare dei lavori difficili, perché io sconfortata del fatto che non fossi in grado di adempiervi, ci rinunciassi al termine. Fu lo stesso padre della figlia in coma, a dirmi che quel lavoro era troppo impegnativo per me, ma mi pagò duecento euro circa, per quei quattro giorni che feci presso la sua abitazione a Galliera (Bo). Sebbene, alla fine, me la stavo cavando benino.

Era stato corrotto, sia lui, che il nonno che mi puntulizzarono il fatto, che avessi preso degli appunti, sulle medicine e gli orari in cui dovevo darle, come altre operazioni (??). Ma io al tempo, credevo che fossero persone pulite. Mi parlavano continuamente molto bene della loro precedente assistente, che era dell’est, e ciò per mortificarmi ulteriormente.

Barbara, era veramente una ragazza allettata che era in coma vegetativo da oltre quindici anni, ma il fatto che avesse fatto le mie scuole, e che subito dopo essersi diplomata, avesse trovato un lavoro in un’azienda, ma un brutto giorno nel tornare a casa con l’auto, un ubriaco al volante, si era lanciato addosso con la propria, cambiando da quella volta la sua vita, mi sembrava tutto troppo casuale, visto che io invece avevo avuto qualche incidente di percorso con l’Università e altre cosette, che dovetti risolvere in quel periodo della mia vita, e vin cui caddi in una sorta di crisi esistenziale… E la mafia, questo, lo deve avere saputo dall’anamnesi psichiatrica del tempo.

Comunque, fui contenta alla fine, di andarmene, poiché il padre era esaurito alla guisa del mio, e poiché io scappavo già da quello che avevo di mio biologico, mi ritrovai felicemente a rifugiarmi a Bologna, dove volli assolutamente, riavere una casa in cui prostituirmi per rivalermi dei torti subiti dai famigliari.

Presi quindi a prostituirmi nuovamente ma al domicilio o portando i clienti in albergo. Per poi ottenere delle case ad uso residence per qualche giorno, ma poi venne Luca, un ennesimo, intermediario della Polizia, che me ne fece avere una in via della Ferriera. E al quale in dieci mesi in cui stetti lì, diedi circa sedici mila euri. Ma dopo che capì la cosa, che costoro, non erano persone comuni, che si ritrovassero ad avere di loro degli immobili, feci denuncia.

DENUNCIA DI SFRUTTAMENTO DELLA PROSTITUZIONE